Gli archivi del ghetto
Emanuel Ringelblum nacque a Buczacz nel 1900. Si laureò in storia ottenendo un dottorato all’Università di Varsavia. Come molti ebrei dell’epoca fu attivo fin da giovanissimo nel Po’alei Zion, un partito della sinistra ebraica. Per diversi anni insegnò storia nelle scuole superiori ebraiche. Per poi dedicarsi al Joint Distribution Committee, una organizzazione fondata per aiutare i profughi ebrei vittime delle persecuzioni razziali. Nel 1923 insieme ad altri colleghi fondò l’Istituto di Ricerca Ebraico che concentrò i suoi studi sulla storia dell’ebraismo a Varsavia. Nel 1930 era a tutti gli effetti uno degli ebrei della comunità.
Inveterato ottimista credeva fermamente in un futuro certo per gli ebrei polacchi, non valsero a nulla né gli avvertimenti dei suoi colleghi di lavoro né le preghiere dei parenti, nulla lo persuase a lasciare il paese. Quando nel 1939 scoppiò la guerra e la maggior parte dell’élite culturale e politica ebraica decise di scappare verso Est, Emanuel scelse invece di rimanere. Ringelblum conosceva le sue capacità di organizzatore e capì il ruolo, che da intellettuale avrebbe potuto svolgere.
“L’incarico era di organizzare l’assistenza, e chi l’avrebbe fatto se tutti fossero scappati?” scrive Samuel D. Kassow nel suo brillante studio Who Will Write Our History? Rediscovering a Hidden Archive From the Warsav ghetto. Nell’autunno del 1940, il numero degli ebrei di Varsavia si aggirava intorno ai 450 mila persone, confinati in un’area stimabile in meno di quattro chilometri quadrati.
Fu questo giovane storico a riconoscere l’importanza di raccogliere più materiale possibile da tramandare ai posteri. Formò così una società segreta, gli Oyneg Shabes (letteralmente “gioia dello Shabbat, poiché i membri si incontravano spesso di sabato) con l’intento di creare un archivio della vita nel ghetto, migliaia di testimonianze riunite in un ritratto collettivo.
L’archivio voleva documentare sia le sconfitte che le vittorie, gli eroi e i collaborazionisti. Nessuno sapeva quali informazioni sarebbero state prese in considerazione dagli storici nel dopoguerra, per questo decisero di registrare tutto ciò che accadeva intorno a loro. Raccolsero memorie, fotografie, disegni, informazioni sui campi di lavoro, sulla condotta del Judenrat (il consiglio ebraico che faceva da intermediario con i tedeschi), raccolsero le carte delle caramelle, le tessere di razionamento per il cibo, i testi delle canzoni di strada, non risparmiarono nessun particolare per quanto macabro potesse apparire, neppure la storia di una madre che pur di non morire di fame si cibò del cadavere del figlioletto.
Ringelblum, oltre a tenere un diario e a scrivere alcuni saggi, tenne conferenze, pubblici dibattiti e incoraggiò lo studio come forma di resistenza. Aiutò inoltre a sviluppare un questionario da somministrare agli intervistati e, prima di essere catturato, scrisse un trattato riguardante i rapporti tra gli ebrei e la popolazione polacca durante la guerra, riconoscendo da una parte i meriti della resistenza polacca contro il regime nazista e dall’altra la quasi totale indifferenza nei confronti degli ebrei.
Durante la Pasqua del 1943, dopo una breve fuga, rientrò nel ghetto e venne catturato e internato nel campo di Trawniki da cui, travestito da operaio delle ferrovie, riuscì a fuggire grazie all’aiuto della resistenza polacca. Nel marzo del 1944 il suo nascondiglio, un bunker nelle vicinanze del ghetto, venne scoperto e i 38 ebrei lì nascosti vennero infine catturati. Anche dopo essere stato imprigionato dalla Gestapo, Emanuel si rifiutò di corrompere una guardia carceraria che gli avrebbe facilitato la fuga. Rimase invece nella sua cella con la moglie, il figlio di 12 anni e i suoi compagni d’avventura. Il 7 marzo del 1944 venne fucilato insieme alla sua famiglia e alle persone che lo avevano aiutato.
Nel suo libro Kassow riesce a costruire un filo conduttore della vicenda a partire da un corpus consistente di documenti e frammenti in yiddish, polacco ed ebraico rinvenuti negli archivi del Jewish historical institute di Varsavia, dello Yad Vashem a Gerusalemme e del Yivo institute for jewish research di New york, un patrimonio che sarebbe potuto andare perso se non fosse stato per la perizia degli Oyneg Shabes.
Gli ebrei di Varsavia non poterono nulla contro lo strapotere nazista, ma grazie agli Oyneg Shabes, all’archivio segreto di Ringelblum e degli altri storici, sono stati in grado di registrare ciò che hanno pensato, sentito e visto. Circa 35 mila pagine (solo una minima parte della totalità delle fonti) sopravvissero alla guerra, seppellite in bidoni per il latte e barattoli di metallo. Alcuni contenitori furono accuratamente saldati; altri si deteriorarono rovinando irreparabilmente i documenti in essi contenuti, altri scritti, danneggiati dall’umidità, furono recuperati grazie a un minuzioso lavoro di pulizia. L’archivio di carte venne alla luce grazie alla collaborazione e alla tenacia di Rachel Auerbach, uno dei tre sopravvissuti tra le centinaia di persone coinvolte nel progetto. Fu lei che nel 1946 recatasi a Varsavia, chiese ai sopravvissuti, infreddoliti e affamati, rifugiati della città ormai distrutta, di compiere un estremo sforzo per dissotterrare le memorie nascoste sotto le rovine.
Solo di recente i documenti sono stati sostanzialmente restaurati, infatti non esiste ancora ad oggi un catalogo completo. I documenti riguardanti Ringelbaum, che Kassow ha studiato, danno però un quadro esemplificativo e vivido della distruzione del Ghetto di Varsavia per mano dei nazisti e degli sforzi fatti per preservare una parvenza di civilizzazione, che cedette presto il passo al basilare istinto di sopravvivenza.
Fu in queste condizioni che gli ebrei di Varsavia scrissero le loro memorie. Ogni giorno in lotta contro la povertà, la fame, le malattie, la deportazione, le percosse e infine la morte. Il terrorismo psicologico attuato dal regime nazista esacerbò ulteriormente questi fattori, mutando le persone in vuoti involucri, senza la speranza di un possibile futuro. Nonostante tutto alcuni tentarono di ribellarsi in una battaglia disperata, un atto eroico di resistenza attiva nei confronti dei tedeschi, meglio armati e superiori nel numero. A riguardo lo storico Melvin Konner afferma, “I tedeschi impiegarono minor tempo e risorse a conquistare l’intera Francia, di quante gliene servirono per reprimere la ribellione del Ghetto di Varsavia”. La resistenza ebraica, ci ricorda il libro di Kassow, ebbe molte facce più o meno manifeste.
Michael Calimani