Qui Milano – I giovani e il rabbino, confronto aperto
Aperitivo “question time” per i giovani ebrei milanesi. Al classico happy hour con cocktail e stuzzichini in un grazioso locale del centro città, Efes 2, Ufficio giovani della Comunità ebraica di Milano, ha proposto di ascoltare il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma su un tema molto coinvolgente “Coppia e società ebraica. Come ogni nostra scelta si riflette sugli altri”.
Lo spazio è affollatissimo e ci si siede un po’ dappertutto, compreso il pavimento, creando un’atmosfera accogliente e familiare, perfetta per una discussione delicata.
La questione è spinosa perché come spiega il rav Di Segni “ha un impatto sociale molto forte, sono situazioni in cui le scelte dei singoli non rimangono nella sfera della propria religiosità personale, ma si ripercuotono sull’intera comunità”. Il rav illustra il problema demografico con cui l’ebraismo italiano è alle prese. Se nel nostro paese la media è di 1,4 figli per donna, nelle comunità ebraiche il dato scende a 1,2. “Nell’affrontare la questione delle conversioni dobbiamo considerare che l’esperienza, ma anche gli studi statistici, ci hanno dimostrato che le persone che si convertono all’ebraismo e i figli di unioni miste, nella grande maggioranza dei casi non mantengono una vita né un’educazione ebraica”.
Il rabbino capo di Roma parla “del miracolo dell’ebraismo, che con piccolissimi numeri è in grado di dare vita a qualcosa di straordinario, ma non si può sempre contare sui miracoli. Quando si pensa al matrimonio l’amore è fondamentale, ma bisogna anche assumersi delle responsabilità”.
Le domande del pubblico fioccano, e toccano i punti più caldi e controversi del tema. I criteri da parte del rabbinato per accettare una conversione si sono fatti più stringenti negli ultimi anni, e qualcuno avanza il dubbio che pretendere oggi così tanto si stia rivelando una politica non vincente, così come lo era fino ad alcuni anni fa pretendere troppo poco. Viene sottolineata la contraddizione insita nel fatto che, per convertirsi, venga richiesto un livello di pratica delle mizvot molto più alto rispetto all’osservanza della maggior parte dei membri delle comunità. Ci si chiede poi se per prevenire l’allontanamento di coloro che intraprendono questo percorso non basterebbe seguire le famiglie anche successivamente alla conversione. “Per fare chiarezza dobbiamo uscire da una logica provinciale del problema – ha evidenziato il rav – Tutte le comunità ebraiche del mondo si stanno misurando con questi temi, e in Israele, con l’Aliyah dall’Ex Unione Sovietica, questi interrogativi si pongono in maniera drammatica”. Rav Di Segni ha specificato che l’ebraismo è basato su una disciplina, quella della Torah. “La legge, le regole costituiscono il cuore stesso attorno al quale la storia del popolo ebraico pulsa. È impensabile prescindervi. Per questo, è erroneo l’assunto che ‘un ebreo possa fare quello che vuole, mentre la persona che si converte no’. Essere ebrei non è soltanto una condizione esistenziale, ma anche comportamentale. Ognuno liberamente compie le sue scelte, ma deve essere consapevole che, facendolo, viola la disciplina cui è chiamato” aggiunge il rav. E se le regole ci sono, e ci devono essere, il Beth Din, il tribunale rabbinico che si occupa, tra le atre cose, delle conversioni, è formato da uomini, tiene a sottolineare rav Di Segni, che quelle regole le applicano con la loro umanità, e non come “un Bancomat in cui per prelevare devi inserire un codice e basta”. D’altra parte il rabbino capo di Roma propone anche di considerare la questione sotto un’altra prospettiva, quella delle energie a disposizione. “I rabbini spendono moltissimo del loro tempo per occuparsi delle conversioni, che non viene impiegato invece per riavvicinare gli ebrei che si allontanano. Siamo sicuri che sia giusto inseguire chi si converte per assicurarsi che osservi le mizvot, quando non riusciamo a farlo neppure con coloro che appartengono alla nostra comunità da sempre?”
Lanciando ai presenti questo spunto di riflessione, rav Di Segni ha lasciato il locale per il secondo impegno della sua serata milanese, la lezione su“I misteri della Meghillà” organizzata dal rabbinato centrale di Milano e dal progetto Kesher. I giovani sono rimasti, chiacchierando, discutendo, bevendo qualcosa. Un happy hour diverso dal solito, ulteriore prova della vitalità e del fermento che pervade l’ebraismo giovanile italiano.
Rossella Tercatin