Fiction sul nazismo – Inglorious Basterds Tarantino di fronte ai sopravvissuti
Pochi giorni dopo l’annuncio delle nominations agli Oscar di quest’anno il film di Quentin Tarantino, Inglorious Basterds, è stato proiettato a Los Angeles, alla presenza del regista, per un pubblico di ebrei sopravvissuti alla Shoah.
Tarantino ha compiuto una ricostruzione della storia assai ardita e per questo molto criticata. Nel film fa morire tutte le più alte gerarchie della Germania nazista in un attentato, in verità mai avvenuto.
La reazioni emotive del pubblico speciale, direttamente connesso con le vicende rappresentate, o meglio con la verità storica cui esse rimandano, non si lasciano nascondere. “Ecco quel che si meritavano i nazisti!”: il pensiero si legge chiaro e tondo sugli occhi attoniti degli astanti mentre Aldo Raine, il bel Brad Pitt, scortica lo scalpo dei soldati tedeschi uccisi. Si poteva percepire chiaramente il piacere della vendetta, il godimento viscerale nel vedere i nazisti uccisi e pestati da un gruppo di killer ebrei. Risate goffe e nervose, battiti di ciglia poco frequenti, bocca spalancata: Inglorious Basterds ha fatto riemergere, nelle vittime dell’orrore nazista, sentimenti latenti, sotterranei. Forse anche poco politicamente corretti. Nella sua unicità all’interno della filmografia sulla Shoah, nel suo programmatico e dichiarato revisionismo, con l’arroganza propria di chi vuole riscrivere la storia, questo film è riuscito a toccare corde mai prima d’ora accessibili. Non quelle della commozione, non quelle dello sdegno, quelle più animali e più intime, le più segrete, quelle della rivalsa. È questa l’alchimia sprigionata dall’incontro tra il mondo ebraico, la cui psiche collettiva non ha certo attraversato intonsa il Ventesimo secolo, e il mondo di Quentin Tarantino, che dai tempi di Kill Bill ci ha abituato all’etica della vendetta, dominante e ossessiva.
Rimane aperto il dibattito sulla legittimità compiuta dal regista americano. Per alcuni l’introduzione della fantasia nella storia è ingannevole e quindi pedagogicamente sbagliata. Per altri invece è un’operazione dissacrante e affascinante, quindi artisticamente molto riuscita.
Ma è lecito romanzare la Shoah? Ci si chiede all’uscita dalla sala. Può arrecare danno alla Memoria? O invece, con il venire meno dei testimoni diretti, proprio l’arte potrà essere custode della Memoria e interlocutrice privilegiata della società civile, soprattutto delle nuove generazioni?
Seduto tra gli spettatori di questa proiezione speciale allestita dalla testata statunitense Jewish Journal, in incognito, c’era anche Quentin Tarantino, incuriosito dal dibattito più che dal film. Quando una signora ha obiettato che esiste il rischio che la versione del film venga presa sul serio e possa fomentare il vero revisionismo storico, solo allora il regista ha preso la parola, tra lo stupore generale, per chiarire una volta per tutte che la sua è solamente una fiction, che non ha alcuna pretesa di valore storico. Ha ricordato che le prime parole del film sono “once upon a time”, il classico incipit delle favole per bambini.
Una favola in grado di risvegliare e portare alla luce del sole le emozioni più ferine che abitano l’animo umano.
Manuel Disegni