A Mon Dragone c’è il diavolo, il nuovo libro di Giona Nazzaro: superstizione e credenze popolari nel sud d’Italia

E’ uscita il 3 marzo la raccolta di racconti intitolata A Mon Dragone c’è il diavolo di Giona Nazzaro (Perdisa Editore). L’autore del volume è giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collabora con numerose testate, tra le quali Pagine Ebraiche ed è autore di diversi saggi sul cinema e di studi dedicati a Gus Van Sant, John Woo, Spike Lee, Abel Ferrara e al cinema di Hong Kong.
Qual è il tema che fa da filo conduttore ai nove racconti raccolti in questo volume?
La raccolta nasce come tentativo di raccontare un luogo che sia genericamente il Sud Italia, partendo da una realtà ben specifica che ho vissuto e conosciuto come quella indicata nel titolo con un lieve errore di digitazione. Nel momento in cui scrivo non descrivo più solo quella realtà specifica, ma una realtà più ampia che conserva però le tracce della matrice originaria.
Nel tuo libro viene presentato un mondo cattolico che fonda le sue radici sulla superstizione e sulle credenze popolari. Ad oggi quelle credenze sono ancora una realtà consolidata?
Il diavolo esiste là dove viene evocato, un discorso estensibile a molti ambiti del nostro vivere comune. Il cattolicesimo a cui faccio riferimento nei racconti, è una componente ad oggi minoritaria, un cattolicesimo che al sud era profondamente reazionario, ancorato alle tradizioni più oscure della vita contadina tanto da poter essere definito quasi pagano e lontano dalle aperture del cattolicesimo nel nord Italia.
Secondo lei è cambiato qualcosa nel passaggio dalle campagne alle città moderne?
Le cose non cambiano, quel tipo di cattolicesimo alimentato dal clero a quel tempo era un sistema di controllo piuttosto articolato. Un certo tipo di cattolicesimo volutamente chiuso al dialogo, conservatore, continua a esistere a prescindere dal contesto in cui si trova a vivere. Soprattutto nei paesini più sperduti del nostro meridione continua a esistere. Nelle città oggi purtroppo ci dobbiamo confrontare con l’incubo di Pasolini portato all’ennesima potenza. Difficile capire se sia meglio un mondo contadino nel quale si è circondati da angeli e demoni o un mondo cittadino in cui l’anomia regna sovrana e non ci sono neppure le superstizioni a cui aggrapparsi per uno straccio d’identità.
Nella società italiana sebbene non sia così presente la superstizione, permane similmente una forma irrazionale di pregiudizio verso l’altro. Cosa ne pensa a riguardo ?
Questo è un tema che mi sta molto a cuore, ho tentato di affrontarlo con pudore in alcuni racconti presenti in questa raccolta. Uno degli elementi che torna sempre è il dentro e il fuori, il dentro della realtà in cui si svolge il racconto, il fuori come una possibilità che c’è, ma che non viene colta. Quello che ho notato vivendo al sud, per quanto non possa parlare di tutto il sud, ma esclusivamente della mia limitata esperienza, è la presenza di un timore di contaminazione, che si riflette anche al nord. L’andare incontro all’altro per mettersi in discussione e poter condividere i propri incubi. Un esempio lampante è rappresentato dalle cosiddette cacce all’immigrato che continuano ad alimentare il mancato processo di integrazione nella nostra società.
Crede che anche nel cinema italiano ci sia una certa cultura del provincialismo? In cosa pecca il cinema italiano?
Pur essendo un sostenitore dell’indipendenza del cinema da qualunque tipo di contenutismo, ciò che manca al cinema italiano al di là del fatto che strutturalmente soffriamo di un distaccamento abissale dal punto di vista culturale, finanziario, produttivo e immaginario dal resto del cinema europeo e americano, è che il cinema italiano non è più in grado di raccontare la nostra società. Dagli anni ’50 fino agli anni ’70 la società italiana veniva raccontata attraverso una serie di macrocategorie che si offrivano come uno spettro ampio di possibilità atte a raccontare la realtà. Con l’introduzione e la diffusione capillare dei sistemi di comunicazione di massa è come se avessimo appiattito tutte le potenzialità della lingua italiana in favore della funzione unica della comunicazione, di fatto impoverendo la lingua. Tutto ciò coincide con una impressionante paralisi, intellettuale, linguistica, politica e culturale: abbiamo quasi tutto e non siamo mai stati più poveri. A questo riguardo nel mio libro non c’è il rimpianto di una società chiusa a tratti barbara e crudele, ma la constatazione che quella società lì avesse una possibilità in più di potersi emancipare da se stessa. Il nostro processo di emancipazione è molto più accidentato e il cinema in queste condizioni non può vivere.
All’ultima mostra del cinema di Venezia abbiamo potuto vedere il film di Giuseppe Tornatore, Baaria. Una pellicola che racconta in modo magistrale uno dei tanti riflessi della realtà nel Sud Italia. Esistono quindi produzioni di un certo rilievo in Italia?
Tornatore è uno dei pochi che oggi si ricorda come si faceva cinema. Un’arte che si ricollega ad una precisa corrente ideologica del cinema italiano tentando di aggiornarla al nostro tempo. In Italia sono rimasti veramente in pochi. Oltre a Tornatore è da ricordare Avati, l’altro grande nome è Bellocchio che tiene da solo in piedi la tradizione del modernismo cinematografico italiano. Esiste poi, seppur in forme minoritarie, un cinema che continua a raccontare la società, un cinema prettamente documentario, fuori dai canali convenzionali di produzione, che non si vede nelle sale e che non viene acquistato dalle tv satellitari. Una realtà combattiva e motivata che purtroppo non può definirsi cinema italiano, poiché il cinema è una lingua collettiva in cui ci si ritrovano tutti.
Che cosa troviamo di così innovativo nel cinema del resto d’Europa?
Prendiamo ad esempio il film Il Profeta di Jacques Audiard. Si dovrebbe guardarlo per riuscire a capire come la Francia lavori a tal punto sui temi dell’immigrazione, dell’illegalità e del lavoro nero, da riuscire a produrre un film popolato principalmente da attori di origine araba. Un elemento che da il polso di una società capace di mettersi in discussione e di creare ulteriori possibilità d’integrazione. In Italia non abbiamo ancora uno star system di attori non italiani e i pochi attori esistenti rappresentano solo una quota etnica in nome del politicamente corretto.
Come giudica la presa di coscienza del cinema israeliano negli ultimi anni?
Avendo avuto modo di frequentare il mondo dei festival cinematografici, ho potuto constatare che il cinema israeliano, più quello documentario rispetto a quello di finzione, offra un quadro fortissimo di quello che è l’anima di un dissenso politico articolato e creativo. Un cinema coraggioso che non ha paura di essere frainteso né in casa né fuori e che si afferma in virtù di questa forza. Le produzioni israeliane mostrano come nonostante tutto funzioni una democrazia, per quanto problematica essa sia. C’è una forma di pigrizia intellettuale che è deplorevole. Che tipo di pensiero è quello che schiaccia l’individuo sulle posizioni espresse dal resto del paese? Non si può fare un’operazione di semplificazione così drammatica delle complessità in campo. In Israele le contraddizioni irrisolte della questione palestinese servono sovente per giustificare dei cortocircuiti intellettuali atti a sviscerare pregiudizi sopiti. Ci sono persone che rischiano di essere isolate nel loro paese e fuori, all’esterno poiché israeliane e all’interno per il loro dissenso rispetto alla politica del loro governo. Il movimento di dissenso che c’è in Israele è come se rilanciasse in maniera estrema quella cultura del dubbio, della laicità, del pluralismo e dell’indagine intellettuale che da sempre è parte integrante del pensiero ebraico.

Michael Calimani