I fatti non parlano da soli

Da poco è stata lanciata in Israele una nuova campagna del Ministero dell’Informazione che questa volta, per andare subito al punto, ha fatto vedere ai giornalisti della stampa estera alcuni spot: il sunto del modo in cui trasmettono nel mondo l’immagine di Israele. L’ironia non è stata compresa, la satira non è stata colta. Per questo sarebbe infatti necessaria una autocritica – almeno qualche briciola – che i giornalisti presenti sembra non abbiano avuto.
Ma evidentemente il problema è ben più complesso e profondo. Non si tratta solo di cattiva informazione. La realtà, si sa, sta nel racconto che l’articola e la dice. Nessuno può credere che il “fatto” parli da sé. Chi lo pretende è già sospetto: spaccia la sua interpretazione per l’unica obiettiva, cerca di totalizzare la verità. Il “newsmaker” interpreta già selezionando una notizia piuttosto che un’altra. Perfino l’immagine, nella sua apparente certezza, può svolgere funzioni diverse, a seconda del contesto in cui è inserita, e può essere mostrata, con una sapiente regia, per mostrare l’opposto di quello che dovrebbe (il caso gravissimo dell’assassinio in diretta del piccolo Mohammed Al-Durah di cui furono mostrati solo 55 secondi su 26 minuti e fu accusato ingiustamente l’esercito israeliano è paradigmatico).
Quel che colpisce è che da quando, con la mondializzazione, la questione ebraica è diventata una questione planetaria, Israele viene sistematicamente escluso dalla narrazione delle vicende del mondo. D’altra parte, il racconto che l’opinione internazionale sembra aver adottato sul conflitto mediorientale, e soprattutto su Israele, è monocorde. Le stesse voci raccontano dalla loro prospettiva (in buona o in mala fede) la loro storia, e raccontando la consolidano. Il risultato è l’unanimità, il consenso generale, la totale concordanza. E Israele? Del paese, della gente, della vita quotidiana, della scuola, dell’università, del sistema sanitario, viene detto poco o nulla. Come vivono gli israeliani, quali problemi hanno, che cosa pensano – quasi nessuno in Europa lo sa. La prospettiva del giornalista, dell’inviato o del reporter, raramente è interna. Dal confine esterno, tra un po’ di soldati e qualche carro armato, si racconta dal di fuori. È stato questo il monito ironico degli spot indirizzati alla stampa estera.
Il racconto monolitico si è imposto al punto che è divenuto perfino inimmaginabile che ci possa essere una visione ebraica che non sia una semplice reazione emotiva. Non è un caso che si lascino parlare quasi esclusivamente alcuni scrittori. Ma la narrazione del popolo ebraico nel suo complesso è messa al bando. Non c’è posto per un dialogo in cui potrebbe articolarsi. Negando questa narrazione si finisce però per negare anche l’esistenza di chi dovrebbe narrare e non può, cioè di Israele.

Donatella Di Cesare, filosofa