Arnoldo Foà: “Siamo tutti uguali, anche se abbiamo pensieri differenti”
Sulla scena, fra le centinaia di personaggi cui ha dato voce e vita, non si è fatto problemi a vestire le sottane di quattro diversi pontefici. “E non è tutto – ricorda divertito – perché una volta mi è toccato dare voce persino al Creatore. Per un ateo mi sembra una bella soddisfazione”. Ad ascoltarla, sulla soglia del suo novantacinquesimo compleanno, quella voce calda, profonda che ha fatto rabbrividire e commuovere intere generazioni di italiani, quella voce che ha lanciato dai microfoni della radio Alleata di Napoli il segnale della riscossa e della liberazione, quella voce che per tutti ha significato magistrale recitazione, profondità, silenzio, poesia, quella voce che ha attraversato un secolo non è appannata. L’immancabile pipa non l’ha irruvidita, gli anni non l’hanno incrinata. Fra nuovi progetti di lavoro e qualche momento di riposo, ci aspetta nel suo appartamento romano, accogliente ma per nulla pretenzioso, ornato delle sue multiformi creazioni, disegni, dipinti, sculture, ricordi del lavoro di attore e degli innumerevoli viaggi che hanno accompagnato un’esistenza segnata dall’irrequietudine. Accanto ad Annamaria, che ama teneramente ricambiato, Arnoldo Foà non può fare a meno di cedere al vecchio vizio e di restare perennemente sotto i riflettori. Fissa la punta delle scarpe di Giorgio Albertini che cerca di ritrarlo e lo stuzzica, tenta l’impossibile, cercando di fargli perdere la pazienza (“Accidenti, che piedi grandi che ha lei…”). Giorgio ride e non ci casca, lo lascia sbirciare volentieri nel blocco di appunti dove allinea uno dopo l’altro non solo i tratti, ma anche i pensieri, le anime degli intervistati di questi primi numeri di Pagine Ebraiche. “Ah, lei disegna. Anch’io lo faccio, sa? Guardi qui, questo è mio fratello Piero, che le pare? Quanto l’ho amato questo mio fratello…”. Ora che Piero non c’è più, che decine di colleghi, amici appassionati e tanta parte del suo pubblico se ne sono andati in punta di piedi, Arnoldo Foà porta il peso immenso dei grandi vecchi che hanno amato troppo la vita. Migliaia di ore sul palcoscenico, tanti amori, quattro matrimoni, l’affetto di milioni di italiani che hanno amato la sua voce e la sua arte, un’identità ebraica contraddittoria, difficile e combattuta, ma mai negata, sempre portata a testa alta, con fierezza, come spesso avviene agli ebrei italiani.
Negli scorsi giorni ha regalato al lettore italiano un libro di memorie (Autobiografia di un artista burbero, Sellerio, 212 pagg). E’ venuto il momento di quietarsi, di tirare i remi in barca, di concedersi un momento di riposo?
Mah, veramente sarebbe il caso di rimettersi a fare le valigie.
Verso dove?
Verso l’America, questa volta, per un viaggio che dovrebbe portarmi da New York, a Washington a Miami per raccontare alla gente di un italiano che sulle due sponde dell’Oceano è stato molto amato.
A chi si riferisce?
Questa primavera vorrei ancora una volta dare voce ad Arturo Toscanini, portando negli Usa il testo che al grande direttore d’orchestra ha dedicato lo storico Piero Melograni (Toscanini, la vita, le passioni, la musica). E’ un monologo lungo e fisicamente molto impegnativo, uno sforzo mnemonico non indifferente… Per un artista è una bellissima sfida. Soprattutto per uno come me, che ha sempre molto amato la musica e la libertà.
Insomma, ha voglia di partire.
Sì, e quando ho voglia di fare una cosa, se posso la faccio. Tutto qui.
Torniamo indietro nel tempo. La sua identità di ebreo italiano, quando ha cominciato a percepirla?
Me l’hanno gettata addosso le leggi razziste del 1938, così come a molti altri. Ero giovane, e noi eravamo come tanti altri: dei cittadini come tanti altri. Quando sono stato costretto a lasciare l’Accademia d’arte drammatica ho capito che le cose non stavano così.
Cosa la colpì di più, allora? La privazione dei diritti, la negazione di un’eredità ancestrale? L’odio razzista?
Quello che mi impressionò molto, per la verità, fu l’enorme divario fra quello che dicevano le leggi discriminatorie e la realtà quotidiana. Restai amico delle stesse persone, continuai a coltivare gli stessi affetti. E la gente comune fece molto per non dare peso a qualcosa che sembrava del tutto incomprensibile. La gente che conoscevo non era razzista, e questa storia la chiamavamo una stronzata. Così, nonostante le continue ingiustizie e l’arte d’arrangiarsi per continuare e studiare e lavorare, la vita è andata avanti, bene o male.
E il rapporto con suo fratello?
Piero ha avuto la capacità di essere sempre molto più ispirato e religioso di me. Non abbiamo mai affrontato in un confronto diretto le nostre due diverse sensibilità. Ma nonostante questo, o forse proprio per questo, l’ho tanto amato. Ho sofferto molto quando è morto, e i ritratti che gli ho dedicato li tengo sempre davanti a me.
Cosa ha imparato da quell’esperienza e dagli anni della guerra?
Che tutti gli uomini sono uguali, anche se hanno pensieri differenti.
Questa casa è piena di ricordi, e di libri. Lei non ha perso la voglia di leggere. Cosa tiene aperto sul tavolo in questo momento?
Le mie memorie, perché voglio continuare a sapere chi sono. Ho milioni di ricordi, tanti che qualche volta non te li ricordi più.
E basta?
No, certo, c’è dell’altro. Cervantes, ma soprattutto i poeti, tutti i poeti che ho amato leggere nella mia vita di uomo e di attore, quelli cui ho cercato di dare voce e di cui ho realizzato delle registrazioni nella speranza che il loro messaggio fosse ascoltato da tanta gente.
Quali sono i poeti che porta sempre con sé?
Anche solo Leopardi, tanto per cominciare, e per citare un solo nome di cui oggi si parla poco ma che non mi ha mai lasciato solo.
E a teatro, ci va ancora?
Mica tanto. Forse perché sono diventato vecchio, ma non sono più capace di vedere tante cose interessanti.
I mostri sacri di un tempo che hanno calcato la scena assieme a lei, non hanno avuto eredi?
Non so, non è facile rispondere. Temo di no. Ho visto da vicino tanti colleghi di valore, ora non ritrovo quella dimensione sulla scena italiana.
Sente ancora la presenza dei suoi colleghi accanto a lei?
Molti erano dei prodigi di bravura e di professionalità. E continuo a sentirli come fossero ancora vivi. Tanti nomi che dal mio personale teatro non usciranno mai.
Uno fra tutti?
Vittorio Gassman, per esempio, era certamente qualcuno. Anche se credo abbia sofferto di essere sempre, immancabilmente, troppo se stesso.
Lei ha amato molte donne e vive ora, nonostante gli anni, una quarta, appassionata unione.
Vorrei essere così bravo e così coraggioso da imporre il nome di Annamaria alla storia d’Italia, come l’Anita di Garibaldi, o nella letteratura come la Beatrice di Dante, la Laura del Petrarca, la Fiammetta del Boccaccio. Sono continuamente combattuto dal dubbio che sia la sua straordinaria dedizione a legarmi così intensamente a lei, o il mio amore per lei, a prescindere dalla sua dedizione. Passo da una convinzione all’altra in continuazione, finché la tenerezza reciproca, le risate che ci facciamo per gli stessi motivi, anche quelli stupidi (sono importanti quelli stupidi, perché sono quelli più sinceri), e il fatto che non resti in noi alcuna traccia di rancore dopo un inevitabile scontro di opinione o di comportamento, non mi convincono della realtà del mio sentimento per lei. La differenza di più di quarant’anni fra noi non esiste: o la sua età mi ha ringiovanito o io ho fatto crescere lei.
Grazie, questo non è teatro, ma il suo modo di amare e di intendere la vita.
L’ultima domanda cade in un silenzio. Alla considerazione finale dell’intervistatore, le regole vogliono segua una risposta conclusiva. Ma questa volta la voce di Arnoldo Foà ha circondato di silenzio uno sguardo intenso, un silenzio eloquente che non è facile da raccontare al lettore. Ci siamo congedati con un sorriso.
Guido Vitale
(Tratto da Pagine Ebraiche, marzo 2010)