Trotsky: a bibliography, una meticolosa ricostruzione del genio militare della Rivoluzione d’Ottobre

Robert Service è uno dei più accreditati studiosi del comunismo nel mondo anglosassone. Docente di Storia russa a Oxford, alla fine del 2009 ha portato a termine la trilogia di biografie iniziata dopo l’apertura degli archivi sovietici. In seguito ai lavori su Lenin (2000) e Stalin (2004) ha pubblicato, per l’editore McMillan, Trotsky: a biography. Una meticolosa ricerca di 600 pagine che ripercorre la vicenda politica del genio militare della Rivoluzione d’Ottobre, tracciandone un ritratto complesso, facendo emergere, cucite insieme, le molte facce di questo ideologo appassionato e cinico stratega.
Lev Davidovič Bronstein, “il peggior figlio di puttana, ma il più grande ebreo dai tempi di Gesù”, come lo definì il colonnello americano Raymond Robins, è meglio conosciuto come Trotsky. Nacque nel 1879 da una famiglia di contadini ebrei vicino a Odessa, in Ucraina. Service affronta anche la sua “questione ebraica”: non fu Marx l’unico marxista ad averne una.
La sua famiglia non era osservante, tuttavia egli ricevette un’educazione ebraica: dall’età di sette anni studiò in yeshivah e imparò l’Yiddish. Ebbe modo, crescendo nell’Ucraina dei pogrom di fine ‘800, di conoscere gli orrori dell’antisemitismo. Sviluppò una profonda repulsione per l’ingiustizia e la tirannia: il concetto di diseguaglianza nazionale fu una delle principali cause che lo portarono a combattere l’ordine costituito. Considerò i pogrom come il risultato storico dell’ordine sociale schiavista, gli ebrei come un capro espiatorio dell’establishment zarista. L’abbattimento di quell’ordine – che divenne lo scopo della sua vita – avrebbe posto la parola fine ad una lunga storia di persecuzioni razziali.
Presto Trotsky, nonostante procedesse negli studi ebraici, maturò una concezione completamente atea, che, in linea col marxismo, considerava la religione come una superstizione, l’oppio dei popoli. La sua dottrina internazionalista non poteva ammettere particolarismi nazionali o religiosi. Non credeva in altro paradiso che in quello che i lavoratori di tutto il mondo si sarebbero costruiti con le loro mani. Ciò fece di lui un convinto fautore dell’assimilazione. Rifiutò persino una sepoltura ebraica al padre, per dimostrare la propria decisa repulsa di ogni elemento religioso. Altrettanto decisa era però la sua battaglia contro l’antisemitismo dilagante in Europa.
Si racconta che un giorno il rabbino di Mosca Jacob Maze provò a intercedere per le sorti del suo popolo presso Trotsky, facendo appello alle sue origini. La risposta che ottenne fu: “Io sono un comunista, non un ebreo”. Anche nei confronti del movimento sionista il suo atteggiamento fu ostile: lo definì un’utopia reazionaria e statalista. Solo durante negli ultimi anni della sua vita mostrò interesse per l’esperimento socialista dei kibbutzim.
Rinnegare le sue origini non gli bastò: l’opinione di Winston Churchill, condivisa anche da molti storici, è che il fatto di essere ebreo fu la causa determinante della sua sconfitta nella lotta contro Stalin.
Trotsky fu la mente organizzatrice della presa del Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi, nonché colui che, grazie alle sue eccezionali doti di generale, difese la Rivoluzione dal contrattacco dei bianchi, le truppe zariste antisemite sostenute dalle potenze occidentali, spaventate dagli avvenimenti del 1917. In poche settimane mise in piedi dal nulla l’Armata Rossa. Il possente braccio del bolscevismo, quello stesso esercito che il 27 gennaio 1945 liberò Auschwitz, ebbe la meglio sulla Reazione nel 1921, al termine di una guerra che costò – calcolano gli storici – dodici milioni e mezzo di morti.
Antistalinista fino al midollo, Trotsky passò a miglior vita una mattina del 1940, nel suo esilio messicano, con l’ascia di un sicario di Stalin conficcata in mezzo agli occhi. Il professor Service è convinto che ciò non faccia di lui una brava persona: al tempo della guerra civile non esitò a ricorrere al terrore rivoluzionario. Sposava senza riserve la tesi che la violenza proletaria era uno strumento indispensabile per la causa dell’affrancamento delle masse dai loro oppressori. E fu coerente nella pratica.
Una delle molte critiche mosse dagli storici di sinistra all’approccio di Service è quella di minimizzare l’apporto teorico del leader militare allo sviluppo del comunismo, e, conseguentemente, di ridurre la sua opposizione a Stalin ad una mera ambizione di potere, sottostimando l’importanza delle convinzioni etico-politiche che contrapponevano i due. Lo storico di Oxford invece interpreta il conflitto tra i due più come una questione personale che politica.
Alla morte di Lenin, nel gennaio del ’24, si ebbe una vera e propria lotta per la successione. Il primo scontro aperto riguardò la questione della burocratizzazione del partito comunista, e il conseguente accentramento di potere nelle mani del segretario Stalin. Trotsky, al tempo ancora un autorevole e popolare leader, portò avanti una battaglia volta a limitare le prerogative dell’apparato e a ridare spazio ai principi della democrazia sovietica. Stalin, comprendendo che “l’ebreo deviazionista” – come iniziò a chiamarlo – era il nemico più pericoloso, riuscì ad isolarlo. L’altra grande questione che divideva i due contendenti era, si può dire, la politica estera. Trotsky infatti è passato alla storia del pensiero politico come il teorico della rivoluzione permanente: riteneva che il processo di costruzione del socialismo fosse soltanto ai suoi primi passi, e che compito dell’Unione sovietica sarebbe stato quello di mettersi alla guida del proletariato mondiale per estendere la Rivoluzione, soprattutto verso l’Occidente sviluppato. Il georgiano invece era un fautore del socialismo in un solo paese, in discontinuità con il marxismo.
Accortisi intempestivamente delle velleità tiranniche di Stalin, nel ’25 Zinov’ev e Kamenev, dirigenti di partito, anche loro di origini ebraiche, si riaccostarono a Trotsky formando la cosiddetta opposizione di sinistra. Ormai, però, il potere del dittatore era incontrastabile, ed egli ebbe buon gioco a sgominare il “deviazionismo giudaico”.
L’aspetto su cui insiste il biografo, delineando la contrapposizione tra i contendenti alla successione a Lenin, è la differenza tra i caratteri di questi due leader: uno carismatico condottiero, l’altro rozzo e autoritario contadino georgiano. Il denominatore comune – dice Service – è la crudeltà.
Non la pensava così Lenin, che nel suo testamento scrive: “Stalin è troppo grezzo, e questo difetto è intollerabile nella funzione di un segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di sollevarlo da questo incarico, e di designarvi un altro uomo, che si distingue dal compagno Stalin per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni”. Fu però Stalin a presentarsi come l’unico autentico depositario del leninismo.
La storia si fa con i se e con i ma, è risaputo. La domanda che s’impone al biografo di Trotsky è quale sarebbe stata la sorte dell’Unione sovietica, e con lei del sogno socialista, se egli avesse prevalso su Stalin nella feroce lotta di successione seguita alla morte di Lenin. Service intende squarciare il velo fascino che – sostiene – avvolge questo figuro, e mostrarlo in tutto il suo ‘realismo politico’, spietato e sanguinario. Gli nega ogni presunta superiorità morale sullo storico nemico, non crede che Trotsky sarebbe stato un leader più umano. Avvalorando così l’equazione tra la scienza marxista e l’efferata deriva totalitaria dello stalinismo.

Manuel Disegni