Qui Venezia – In Memory’s Kitchen, vecchi sapori di cucina ebraica nel ricettario della Memoria delle donne di Terezin

Per un gruppo di donne internate nel campo di Terezin, la cucina non era solo un argomento di conversazione. Esse riuscirono a scrivere un libro di ricette nonostante gli stenti, sapendo di non poter mai più preparare i piatti che così minuziosamente descrivevano. Quello che ne esce rappresenta un elemento quasi unico nella letteratura sulla Shoah, un libro di ricette sognate, immaginate: un ricettario della memoria.
Di questo parla il libro In Memory’s Kitchen, caso letterario dell’anno per il New York Times, presentato l’altra sera dall’autrice Cara de Silva e introdotto da Shaul Bassi, professore di Lingua e Letteratura Inglese all’Università di Ca’ Foscari, in collaborazione con Il Museo ebraico di Venezia, il Centro veneziano di studi ebraici internazionali, la Biblioteca Renato Maestro, il Centro interdipartimentale di studi balcanici e il Centro studi e documentazione della cultura armena.
Cara de Silva è una scrittrice e una giornalista pluripremiata. Per dieci anni ha scritto per il New York Newsday, uno dei giornali più diffusi negli Stati Uniti, con una rubrica dedicata alla gastronomia newyorkese. Oltre a In Memory’s Kitchen è stata autrice e coautrice di una serie di saggi apparsi in pubblicazioni dai nomi piuttosto accattivanti come Gastropolis: Food and New York City, Food and Judaism, A Slice of Life: Contemporary Writers on Food. Cara ha inoltre collaborato con giornali e riviste come il New York Times, il Washington Post, il Los Angeles Times Syndicate, Food & Wine, Eating Well, Martha Stewart Living, Cuisine.
La vicenda ha inizio 25 anni dopo la morte a Terezin di Mina Pächter, una delle autrici del ricettario, quando uno sconosciuto contattò telefonicamente la figlia, Anny Stern e le comunicò di avere un pacchetto per lei da parte di sua madre. Per più di dieci anni Anny non aprì il pacchetto, per lei rappresentava qualcosa di sacro, un ultimo ricordo della madre. Ebbe poi il coraggio di farlo visionare a una collezionista di libri di cucina, che subito si rese conto del valore intrinseco del manoscritto. Si misero quindi in contatto con una traduttrice, Bianca Steiner Brown, sopravvissuta del campo di Terezin, per poi arrivare alla giornalista Cara de Silva che decise di raccontare la storia di questo ricettario.
“Quando vidi per la prima volta il manoscritto – spiega Cara de Silva – scritto con calligrafie diverse, tremolanti, non mi resi subito conto che, al pari del diario di Anna Frank, queste ricette erano un documento altrettanto commovente e importante. Non sono solo ricette, ma sono autobiografie di persone. Ogni ricetta ha una storia da raccontare, nuovi elementi sulla vita a Terezin.”
Terezin era una città fortezza, costruita dall’imperatore d’Austria Giuseppe II alla fine del ‘700. Sotto il Terzo Reich divenne però un luogo di morte. La Gestapo utilizzò Terezin, più conosciuta con il nome tedesco di Theresienstadt, come campo di concentramento. Circa 144 mila ebrei furono imprigionati qui (tra questi 15 mila bambini), dei quali 33 mila morirono, a causa della fame, delle malattie e del sovrappopolamento. Terezin infatti era stata inizialmente progettata per ospitare circa 7 mila persone e arrivò ad ospitarne invece più di 90 mila. Si viveva cibandosi di rifiuti e più di cento persone al giorno morivano di stenti: i cadaveri sparsi ovunque per le strade della città destinata da Hitler agli ebrei, una città scenario principe della bieca propaganda nazista che dissimulò la vita del campo in favore di una realtà edulcorata da poter esibire in occasione della visita di alcuni osservatori della croce rossa.
Attraverso la vitalità del ricordo prende corpo una lotta contro l’oblio, il tentativo di lasciare non solo un segno di sé, ma il ricordo di un’intera tradizione. Le persone che hanno scritto le ricette contenute in questo libro non erano di certo le uniche che hanno tentato di preservare le proprie tradizioni, ma rispetto ad altri libri di questo genere Memory’s Kitchen ha permesso ai lettori di avvicinarsi al tema della Shoah da una prospettiva più intima, più a misura d’uomo.
“Il cibo – secondo l’autrice – quando si unisce al ricordo riesce a superare qualsiasi confine, diventa un linguaggio universale che tutti riusciamo a comprendere e ad assimilare”.
Per sopravvivere in quelle condizioni la fantasia era un elemento essenziale e Mina Pächter insieme alle sue compagnie di prigionia cercarono di rendere più vivido il ricordo di un mondo al quale volevano disperatamente tornare attraverso le ricette della tradizione ebraica. Ciò dimostra quale sia il potere del cibo come metafora di vita, come tratto identitario di un popolo, una forma di resistenza psicologica contro chi, in questo caso, cerca il tuo annientamento.

Michael Calimani