Voci a confronto

Va chiudendosi, con la giornata di oggi, una settimana al fulmicotone, dove il disagio vissuto da certuni si è incontrato con il malessere di altri, frammischiandosi in una sorta di miscela potente e pericolosa. Ci riferiamo in particolare modo ai contenuti, di segno, valore e significato diverso, che hanno accompagnato le dichiarazioni per la stampa di alcuni esponenti della Chiesa cattolica. A quanto detto da monsignor Babini, vescovo emerito di Grosseto, per il quale lo scandalo degli abusi contro i minori sarebbe il prodotto di un «complotto sionista», si sono aggiunte, nella loro polifonica dissonanza, gli accostamenti, fatti da voce ben più autorevole, quella di Tarcisio Bertone, il segretario di Stato vaticano, tra omosessualità e pedofilia. Precedentemente, Michele De Rosa, vescovo di Cerreto Sannita, aveva esternato sulla “insaziabilità” e sulla “permalosità” degli ebrei. A suggello del suo ragionamento il presule aveva osservato, con involontaria causticità, che «capisco che abbiano sofferto con l’Olocausto ma non possono farne una bandiera». Pochi giorni prima vi era stato il pronunciamento pubblico di padre Raniero Cantalamessa, per il quale le difficoltà odierne della Chiesa presentano molte analogie con le persecuzioni antiebraiche; poi le affermazioni del cardinale decano Angelo Sodano, sul nesso tra contestazioni a Benedetto XVI e rilievi critici contro il pontificato di Pio XII (e di altri papi). Un primo bilancio interessante, orientato sul lungo periodo, è quello offertoci da Giovanni Miccoli, insigne storico della Chiesa, a colloquio con Marco Politi su il Fatto quotidiano. Secondo lo studioso due sono i punti critici dell’attuale pontificato. Il primo è «il ridimensionamento sistematico del Concilio Vaticano II», riletto alla luce di un neotradizionalismo culturale e ideologico che, nei fatti, si traduce in una linea di regresso del dialogo ecumenico così come dei rapporti interni all’istituzione ecclesiale. Il secondo punto è il rapporto tra Chiesa e Stato; per meglio dire, tra magistero papale, diritto naturale e istituzioni laiche, laddove le prime due sono intese come fonte sovraordinate, destinate ad esercitare una primazia assoluta sulla vita delle comunità umane. Su Liberazione Guido Caldiron intervista Piero Stefani, studioso dell’ebraismo, nel merito dell’atteggiamento del cattolicesimo istituzionale verso i «fratelli maggiori». Interessante – e condivisibile – il giudizio sull’esistenza di una linea di continuità, ovvero di un retaggio irriflessivo, nella manifestazione di una “pseudoteologia nera” del complotto, che dal Risorgimento “massonico e giudaico” arriva ai giorni nostri, con le strologate sul sionismo. Peraltro, che quanto avvenga sia vissuto con crescente disagio da credenti e non, lo si desume anche dalla lettura delle lettere commentate da Corrado Augias su la Repubblica, laddove c’è chi dice di notare «una grande vicinanza tra il deterioramento del linguaggio della Chiesa e quello della politica italiana». In questo bailamme di detti (e contraddetti) ai più è sfuggita, in tutta probabilità, la dichiarazione di Roberto Calderoni, esponente della Lega Nord, nonché ministro per la Semplificazione, che l’11 aprile ha dichiarato che contro il Papa si starebbe consumando un «complotto massonico». Ciliegina sulla torta, che sembrerebbe avere poco a che fare con i fatti di casa nostra ma che invece non deve essere sottovalutata, è l’ottima performance elettorale del partito xenofobo e populista Jobbik, guidato dal trentenne Vona Gábor, dove alle elezioni politiche ungheresi ha raggiunto la ragguardevole soglia del 16,7% dei consensi. La sua piattaforma è dichiaratamente autoritaria, intollerante e trova sodali in molte organizzazioni politiche europee, il cui bacino elettorale viaggia dal minimo del 5,6 raccolto dal Partito Nazionaldemocratico tedesco, al 21,6% del PVV, il Partito della libertà olandese, passando per il 12% del Front Nazional di Jean Marie Le Pen, al 10,7% della Bzoe, la Lega per il futuro dell’Austria, all’11,7% del Partito nazionale slovacco e via discorrendo e citando. Di tutto ciò già il 13 aprile ne aveva parlato, con un articolo molto informato, Alessandro Oppes su il Fatto quotidiano, tema poi ripreso da Piero Ignazi sul Sole 24 Ore di ieri. Si tratta di formazioni politiche composite ma accomunate da una idea, ossessivamente ripetuta come se si trattasse di un verbo: la crisi che i paesi europei stanno vivendo ha una sua radice nella presenza degli «stranieri», coloro che per cultura, origine, storia e quant’altro sono tematizzati o, più semplicemente, percepiti come estranei. La qual cosa li rende non solo diversi ma pericolosi per il fatto stesso di esistere. Quindi invisi. Lo slittamento verso tematiche antiebraiche, quando già non si è pronunciato, come è invece nel caso dello Jobbik magiaro, è immediatamente dietro l’angolo. Tanto più dal momento in cui la figura del fantomatico «ebreo» assomma ancora una volta in sé tutti i tratti più deteriori della modernità, essendone tematizzato come, al contempo, il vettore culturale e il beneficiario diretto. Non è un caso se la compulsiva e maniacale reiterazione del cliché si verifichi in anni, quelli che stiamo vivendo, di rinnovata crisi economica, dove una parte delle classi medie europee sta vivendo una drammatica crisi di status e di posizionamento sociale. Gli ebrei sono percepiti, per un pregiudizio di senso comune, tanto falso quanto diffuso poiché autoconvalidato, come tra quanti appartengono di fatto alle élites economiche, giocando in tal senso il proprio ruolo di “manipolatori” delle società di cui fanno “indebitamente” parte. La partitura pubblica incautamente suonata sulla Shoah, intesa da certuni come «male assoluto», è da altri intesa come un riscontro del tentativo, attraverso il ricorso alla risorsa del vittimismo, di accreditarsi come destinatari della considerazione collettiva: fatto, quest’ultimo, che rivelerebbe l’intenzione di strumentalizzare pro domo propria, il dolore e l’attenzione che questo sollecita. Da tale punto di vista, il ricorso inflazionato al fantasma dello sterminio come ad una pietra di paragone, così com’è avvenuto tra le gerarchie cattoliche con le ultime vicende sulla pedofilia, non fa altro che rinnovare un pericoloso equivoco: quello per cui agli ebrei dovrebbe essere attribuito un primato nella comparazione del dolore, ossia nella costruzione di una scala di rilevanza. L’essere posti alla vetta della medesima rischia di venire inteso come un ingiustificato privilegio. Il fatto che ciò non sia (ancora) detto pubblicamente non indica che tale atteggiamento non sussista carsicamente, tra le tante, infinite pieghe del pregiudizio diffuso. Per questo, oltre che per molte altre ragioni, le difficoltà della Chiesa non possono non essere lette anche all’interno della vulgata populista che si sta consolidando un po’ ovunque in Europa, proclive a recuperare una lettura tutta pregiudizievole della realtà, laddove i risentimenti di invidia e di rancore si saldano ad una lettura schematica – poiché tutta ideologica – del mutamento nelle nostre società. Se si solleva il capo dall’Europa, peraltro, il panorama risulta come di scarso conforto. A Gaza, tanto per dire, continuano le uccisioni dei «collaborazionisti», così come ce le resocontano Virginia Di Marco su il Riformista e Aldo Baquis per la Stampa. Cerchiamo allora di chiudere con qualche nota lieta. Mentre Elio Toaff compie 95 anni, così come sono raccontati da Franca Giansoldati su il Messaggero, domani sera inizia a Ferrara la prima festa del libro ebraico. Ce lo ricorda, tra gli altri, Francesco Napoli su Liberal. È il caso di augurare a tutti “buona lettura!”. Poiché le buone idee, come le migliori persone, non hanno età.

Claudio Vercelli