A proposito di pluralismo

Pluralismo non è solo il dato di fatto della differenziazione sociale o culturale, ma la valutazione positiva della presenza di diverse opinioni, parti, tendenze nello stesso corpo sociale. Rispetto ad altre culture classiche che vedevano la differenza delle posizioni come un male necessario o una pura differenza di funzioni sociali e alle culture che hanno forzato la loro unità con dogmi, cleri e gerarchie, l’ebraismo si è sempre caratterizzato non solo per la sua pluralità (le dodici tribù, gli askenaziti e i sefarditi), ma per il suo pluralismo, come emerge per esempio dalla scelta talmudica di riportare sistematicamente le opinioni di minoranza e di riconoscere loro il titolo di “parole del D-o vivente). Il commento ebraico è per definizione pluralista. Per questo è importante il convegno sulla pluralità ebraica organizzato da Pitigliani e Martin Buber.
E però vi è autentico pluralismo solo sullo sfondo di un’identità condivisa. Interrogarsi intorno al pluralismo ebraico richiede dunque di porsi immediatamente il problema dell’identità ebraica. Questione tanto più urgente quanto più differenziato è oggi di fatto il popolo ebraico. Differenziato, prima che pluralista. Diviso fra israeliani e abitanti della diaspora, fra tradizioni orientali e occidentali, fra grandi correnti religiose. Ma da noi diviso, oltre che naturalmente per collocazione e provenienza geografica, stato sociale e professionale, riferimento politico e religioso, innanzitutto sul piano dell’adesione alla pratica religiosa fra pochissimi ebrei veramente osservanti, un’altra parte più consistente ma ancora minoritaria comunque attenta alla dimensione religiosa, per esempio alle feste principali; e infine una maggioranza pressoché completamente laicizzata, in via di progressiva dispersione.
Bisogna dunque innanzitutto interrogarsi su quale sia l’identità comune che unisce oggi il laico e il religioso, il popolano e l’intellettuale, il gher e il “lontano” che si possano dire ebrei. La mia idea è che questa identità sia, per dirla con Rav Soloveitchik, la scelta di condividere il destino storico del popolo ebraico, la scelta di essere attivamente quel che si è per eredità – il che significa tanto la continuità con la tradizione storica e religiosa quanto l’adesione alla scelta sionista e allo Stato di Israele. Non è possibile naturalmente sviluppare né tanto meno giustificare qui quest’idea dell’identità, che io propongo come una base fattuale e non certo come un ideale di perfezione e completezza. Se si accetta che il minimo comun denominatore dell’identità ebraica oggi in Italia sia il riconoscimento di una comunità storica, si deve dire che il pluralismo ebraico è l’accettazione della diversità di opinioni, di credenze, di pratiche all’interno di coloro che accettano di “essere ciò che sono”, cioè di sentirsi parte del destino comune del nostro popolo.
Dentro questo quadro la pluralità delle ideologie politiche e delle posizioni religiose è molto vasta: si contano haredim e modern orthodox e ebrei progressivi, vi sono sionisti per la pace e i nazionalisti religiosi e difensori di Israele senza etichette. Essere pluralisti vuol dire ammetterli tutti nel discorso comune, benché certamente senza rinunciare a difendere la propria convinzione. Da liberale, questo è il mio principio: non sono d’accordo con te, ma difendo il tuo diritto di parlare. Vale la pena però intanto di sottolineare ancora la cornice di questa sfera comune: l’identità dentro cui si deve sviluppare il pluralismo è sempre l’accettazione del destino storico del nostro popolo, l’amore per Israele. E poi di notare che vi sono posizioni più o meno utili a sostenere questa identità. Per esempio, io non credo che la critica pregiudiziale dello stato di Israele, in mezzo alle sue difficoltà attuali, aiuti l’ebraismo, anzi, considero che sia una posizione molto negativa e la combatto a viso aperto.
Su un altro piano, credo che non sia utile l’alternativa religiosa rigorista fra una perfetta osservanza delle mitzvot o l’estraneità, anche perché il primo corno del dilemma si traduce nella grande maggioranza dei casi nell’ipocrisia di una non osservanza appena mascherata e nel secondo porta alla perdita dell’identità. Penso che l’ebraismo italiano abbia compiuto centocinquanta anni fa, al momento dell’emancipazione, la scelta sbagliata di trattarsi come una religione (per lo più di specie cattolica, con i “preti” ben distinti dal “gregge”), mettendo in secondo piano la dimensione di popolo. E abbia scelto con ciò di rinunciare a trovare mediazioni fra la sua pratica sociale vera, sempre più assimilata e laicizzata, e la sua ipotetica appartenenza religiosa. Per questo è importante e positivo, secondo me che lo pratico, la nascita di un pluralismo religioso organizzato in Italia, sperabilmente capace di ridurre questa forbice fra religione e stile di vita, e di recuperare così all’ebraismo consapevole le fasce sempre più importanti che rischiano oggi di abbandonare anche l’identità e non solo la pratica religiosa. In ogni caso l’apertura di uno spazio plurale ebraico è un rimedio importante al rischio che l’ebraismo corre oggi di sparire per l’impossibilità di molti a identificarsi davvero con la sua corrente maggioritaria e più ufficiale. Davvero si può dire che la scelta è fra pluralismo attivo e dispersione involontaria

Ugo Volli