Yerushalmi e l’identità
Che cosa vuol dire essere ebrei? C’è una “identità” ebraica? La questione attraversa tutta la riflessione ebraica degli ultimi decenni dove le posizioni convergono almeno su un punto: che è già molto problematico parlare di “identità”. Perché significherebbe poter indicare delle caratteristiche precise che tutti dovrebbero riconoscere e accettare. C’è insomma un problema di definizione dell’ebraismo. Enumerare tratti e caratteristiche non serve. L’ebraismo sfugge ad ogni presa concettuale. È questa la sua forza. Perciò bisognerebbe imparare a parlare di “differenza” ebraica, non di identità. E si dovrebbe distinguere tra ebraismo e ebraicità.
Yosef Hayim Yerushalmi, lo storico da poco scomparso ha – forse per primo – introdotto questa distin
zione. Per Yerushalmi l’ebraismo può essere “terminabile”, come suggerisce il sottotitolo del suo libro Il Mosè di Freud. Ebraismo terminabile e interminabile. Indirettamente viene richiamata l’antica frase ebraica tam ve-lo nishlam, “finito, ma non compiuto”. Sarà dunque l’avvenire a decidere il significato di “ebreo”, “ebraico”, “ebraismo”. Ma se l’ebraismo può essere terminabile, che cos’è l’interminabile a cui Yerushalmi allude? La domanda attraversa tutto il libro e riguarda l’ebraismo di Freud: “non era ebreo né per religione, né per sentimento nazionale, né per lingua; con tutto ciò si sentiva profondamente ebreo”. Affiora così una ebraicità che “sarebbe interminabile anche quando l’ebraismo fosse terminato”. Il che scioglierebbe l’enigma dell’identità ebraica che aveva assillato Freud non meno di altri intellettuali ebrei del Novecento.
Yerushalmi è pronto a cedere su tutto. Non è però disposto a cedere sulla “assenza di speranza”. In tal senso quanto c’è di più “non-ebraico” sta nella chiusura dell’avvenire, nella disperazione. Il resto interminabile, che può infinitamente sopravvivere all’ebraismo terminabile, è l’ebraicità – jewishness, judeité. È la “piccola porta” che Walter Benjamin lascia aperta alla fine delle Tesi di filosofia della storia, è la promessa di un segreto che, senza averlo scelto, e senza neppure alla fine conoscerlo, anche gli ultimi marrani hanno custodito.
Ma l’avvenire riaffermato con un “sì” incondizionato, è la memoria dell’avvenire, il ricordo di quel che sarà, che è ancora a-venire, e si compendia nell’ingiunzione ebraica della memoria: zakhor! L’ebraicità starebbe allora nell’ingiunzione rivolta ad ogni ebreo: “in avvenire ricordati di ricordarti l’avvenire”.
Donatella Di Cesare, filosofa