Anna Colombo – Un secolo di vita intensa

Anna Colombo è morta il 4 febbraio in casa sua a Gerusalemme, appena compiuto il 101 compleanno, lucida e cosciente fino al giorno prima. Da allora, io, suo unico figlio, ricevo messaggi diversissimi da tanti suoi amici, ex-allievi e conoscenti, con un unico comune denominatore: quanto ognuno che l’ha conosciuta abbia ricevuto da lei in campi così differenti, malgrado, direi, il suo carattere certo non facile.
Proprio chi non è religioso e non crede all’aldilà, come lo era lei e come una cara amica, direi sua figlia adottiva, non può capacitarsi che una presenza umana come la sua sia scomparsa nel nulla, con tutte le sue memorie, esperienze, letture, emozioni. Per me, e credo per molti che l’hanno conosciuta, resta vivido un patrimonio intero che ci ha lasciato, diverso per ciascuno, ben oltre al libro autobiografico che ha pubblicato pochi anni fa (“Gli ebrei hanno sei dita”, ed. Feltrinelli), alle traduzioni e agli articoli pubblicati sulla Rassegna di Israel, Hakehila e vari altri. Per questo mi permetto di estrarre ed esporre in poche righe quei valori principali che a mio avviso l’hanno caratterizzata, e che in parte per lo meno possono essere un riassunto della sua esperienza umana, lungo un secolo di vita intensa.
Cresciuta in una famiglia ebraica piemontese, tra Alessandria e Genova, in ambiente piccolo borghese, di fede democratica mazziniana, patriota per un’Italia liberale e utopicamente socialista, l’ebraismo era per loro termine d’identità e di calore familiare, più che di religione, e sorgente, nei Profeti e nei Pirkei Avot, del messaggio universale d’integrità morale, di libertà, di giustizia sociale e di umanesimo che la rivoluzione francese e l’emancipazione avevano reso comune per tutti e anche per gli ebrei, dopo tanti secoli di discriminazione.
Era arrivata al sionismo all’inizio dei suoi 20 anni, e alla fine degli anni venti del secolo scorso, come espressione più naturale per gli ebrei della negazione viscerale del fascismo, del nazionalismo e del totalitarismo, molto prima delle leggi razziste e dell’adozione dell’antisemitismo di stato e delle persecuzioni dirette anche in Italia. Il sionismo dunque era per lei sinonimo di lotta per la democrazia, la tolleranza e il rispetto per il prossimo, nello spirito del vecchio Hillel, “non fai al prossimo quello che non vorresti sia fatto a te”.
Per lei, la Shoà, in cui perirono i genitori e il fratello (ne ebbe la tragica notizia solo dopo la Guerra, nella lontana Romania, dove aveva incontrato la realtà di un antisetimitismo esacerbato, popolare e atavico, sconosciuta in Italia) dette conferma non solo della necessità dello Stato ebraico per gli ebrei, ma anche dell’obbligo universale di combattere ogni forma di totalitarismo, di xenofobia, di razzismo, di discriminazione (di destra o di sinistra).
Dal 1968, uscita in pensione dall’insegnamento al liceo pubblico statale in Italia, e al liceo ebraico di Milano, si è stabilita a Gerusalemme: ma di questi ultimi 40 anni di vita non per nulla ha voluto sottolineare nel suo libro, con orgoglio (ma anche con disperazione), solo il fatto di essere stata assidua partecipante alla vigilia settimanale delle “Donne in nero”, contro l’occupazione militare dei territori e della popolazione palestinese. Ha visto con dolore la degradazione nazionalistica del sionismo ufficiale e l’esplosione di fenomeni coloniali, che forse esistevano sotto-sotto anche prima del 1967, ma erano contenuti dalla vergogna, ed erano in contraddizione con i valori dichiarati del movimento di emancipazione del popolo ebraico: si è trovata di fronte a una realtà che l’ha disillusa dalla sua speranza che esso fosse immunizzato contro i germi di cui gli ebrei sono stati per secoli le vittime principali.
Ha continuato per tutti questi anni a interessarsi di ebraismo, di storia, d’arte, di letteratura e di filosofia; fin quando ha potuto leggere e visitare esposizioni ha scritto articoli e dato conferenze su quanto leggeva e vedeva, comunicando ad altri, come educatrice di vocazione, le sue esperienze e reazioni.
Ammirava la curiosità, l’onestà intellettuale e il rigore del pensiero; disprezzava la retorica, la vigliaccheria dei compromessi e anche la fiducia cieca, acritica, verso qualunque forma di autorità, anche a prezzo di perdere amici. Per lei, credo, la libertà di pensiero non era solo un diritto per cui combattere, ma anche un dovere per chiunque voglia essere degno di chiamarsi uomo. Qui terminava la sua dichiarata tolleranza per le idee altrui e per la libera scelta. Chi non usava il cervello, non meritava la sua attenzione.
Pretendeva che l’accettassero com’era e che ammettessero come non conformismo la sua spontaneità, senza offendersi dei suoi modi di fare, spesso non “ben educati”. Molti l’hanno ammirata per “il coraggio di essere com’era, costi quel che costi” (ben scritto da un’amica), ma molti di più hanno preferito tenersi in guardia. Lei stessa invece era molto sensibile a come gli altri la trattassero. Le espressioni del suo affetto e della sua tenerezza sono state molto parsimoniose, spesso sconosciute, a limite di durezza anche per le persone più vicine a lei.
A suo tempo voleva lasciare il suo corpo alla scienza, ma ci aveva rinunciato dopo aver saputo delle difficoltà burocratiche incontrate per questo alla morte di mio padre. In Italia era iscritta per la cremazione, credo per identificazione coi Suoi, periti ad Auschwitz, ma questa non è ammessa in Israele. Negli ultimi tempi mi ha detto che non dava più nessuna importanza alla sepoltura: si è preparata cosciente alla morte, rifiutando di mangiare negli ultimi giorni, lei che era scappata per pranzo persino dal suo adorato Partenone.

Rimmon Lavi