Davar Acher – Nazionalismo ebraico
Chi oggi nel mondo ebraico è tiepido sulla difesa di Israele, dice che tutti gli ebrei ormai sono schierati dalla parte di Israele (e i più bravi sono “per Israele e per la pace”), dimenticando Chomski e Naomi Klein da un lato e i Naturei Karta dall’altro, entrambi con largo seguito. E poi spesso prosegue dicendo che il nazionalismo è un atteggiamento superato e fuori moda, o un errore teorico, il che forse nella filosofia contemporanea è la stessa cosa. Al contrario di quelli palestinesi, progressisti e internazionalisti, i nazionalisti ebrei sarebbero pericolosi reazionari, per il fatto di mettere in testa alle loro preoccupazioni il loro popolo e la sua incolumità. Oggi questo nazionalismo non si porta più, dobbiamo essere tutti aperti, accoglienti, interculturali. Fare ponti e non muri, come disse qualcuno dall’altra parte del Tevere, dimenticando che i muri talvolta salvano la vita.. Sarà vero, ma dato che mi occupo di comunicazione so che le mode sono transitorie e molto spesso brutte.
Al di là della politica quotidiana c’è un grande problema teorico che si pone intorno all’ebraismo a questo proposito. Il nazionalismo infatti presuppone innanzitutto una nazione, se no è chiaramente abusivo. Siamo una nazione? O forse invece una religione (magari “mosaica” come si usava dire fra le due guerre) che può essere seguita da membri di tutti i popoli? La seconda ipotesi, quella dell’ebraismo come religione che si illude di essere una nazione, è per esempio al centro del libro recente di Shlomo Sand, uno storico moderno dell’Università di Tel Aviv che si è cimentato fuori dalla sua competenza accademica, per sostenere che vi sia stata un’”invenzione del popolo ebraico”, e che noi saremmo tutti discendenti di Kazhari convertiti che abusivamente ci leghiamo a Eretz Israel. Con maggiore intelligenza e rispetto la stessa tesi dell’ebraiusmo come pura religione è stata di recente riproposta negli Appunti sulla questione ebraica di Guido Bersellini, che riprendono le tesi di Nello Rosselli. E’ chiaro che in un contesto nazionalistico come l’Italia fascista, la Russia di Stalin (o la Francia di Robespierre) è più facile difendere una religione minoritaria che un popolo disperso. La stessa pretesa di rifiutare il carattere nazionale e privilegiare il carattere religioso appare nella recente sentenza della corte inglese che ha obbligato una scuola religiosa ebraica a iscrivere uno studente che non rispondeva ai criteri alakhici, argomentando che sarebbe contro la legge anti-discriminazioni ogni criterio di selezione che non si basase sulla “fede” e non sull’appartenenza.
Non posso discutere qui nel dettaglio queste posizioni, naturalmente. Sono però numerosissimi gli elementi nella nostra tradizione che indicano che innanzitutto il nostro è un popolo, proprio una nazione nel senso etimologico: a partire dal nome che portiamo, preso del nostro avo Israele, da cui le dodici tribù sono nate, per cui il nome più comune per ebrei nel Tanach è “bené Israel”. Anche la nostra religione, concetto intraducibile in ebraico se non lo si intende se come l’insieme dalle leggi delle pratiche e dai patti dati al popolo, ha un fondamento nell’anteriorità: la promessa di Abramo, l’uscita dall’Egitto di cui tutti anche oggi dobbiamo sentirci partecipi, come abbiamo letto nel seder. Proprio come nazione accettiamo degli obblighi religiosi e siamo titolari di diritti, come afferma la celebre prima nota del commento di Rashi alla Torah. Chi pensa a un ebraismo come pura etica, senza sostanza nazionale, si illude come Hermann Cohen, che alla vigilia della presa del potere del nazismo pensava che l’ebraismo fosse una “religione tedesca”, tanto coincideva con l’etica kantiana.
Se siamo una nazione costruita intorno alla sua religione nazionale, che non intendiamo necessariamente estendere agli altri, anche se ci aspettiamo il riconoscimento dei nostri valori, e non una religione che si finge nazione, possiamo essere nazionalisti, cioè volere l’autonomia e la libertà del nostro popolo? O per essere un “popolo sacerdotale” dobbiamo per forza immaginarci come vittime per l’eternità, come ci vorrebbero e ci amerebbero certi ambienti? E’ facile trovare nelle nostre scritture numerosissime tracce della lotta anche fisica per la nostra libertà. Molte delle nostre feste parlano di questo, molti personaggi amati sono stati guerrieri, da Abramo a Davide. Certo, vi sono molte esortazione all’accoglienza degli stranieri nella Torah, ma questi stranieri sono definiti come ospiti dentro il popolo, che accettano di vivere secondo le sue leggi. Niente è più lontano dall’ebraismo della con-fusione con altri e della condivisione della terra e di Gerusalemme.
Se Israele è una nazione e da un certo punto di vista è il prototipo storico della nazione che va al di là delle istituzioni politiche contingenti, sopravvive e lotta anche senza uno stato o quando lo stato è diviso, perché l’amore di Israele non dovrebbe essere un nazionalismo? Il nazionalismo arabo, per i progressisti di tutto il mondo, va bene. Il patriottismo americano, francese, russo, perfino svizzero è bene accetto e popolare. Perché quello ebraico no?
Ugo Volli