“Stati Generali e Ancien régime, quale riforma per lo Statuto”
Provo a intervenire nel dibattito sulle riforme dello Statuto riconsiderando il problema dall’inizio. Un nuovo assetto giuridico-funzionale dell’ebraismo italiano dovrebbe garantire, meglio di quanto faccia ora, alcune esigenze essenziali: rappresentanza democratica, tutela delle minoranze di opinione, tutela delle situazioni a rischio (piccole comunità, ebrei “lontani”), efficienza organizzativa, rapporti sereni e costruttivi con il rabbinato nel libero esercizio delle sue prerogative. Si dice che le proposte di modifica all’assetto attuale possano rispondere a molte di queste esigenze. Ho l’impressione che lo facciano solo in parte e che creino esse stesse altri problemi, e proverò a dimostrarlo. In pratica si propone di abolire l’attuale congresso, che viene eletto da un voto universale e che si riunisce ogni quattro anni; il congresso elegge un consiglio e dal consiglio emerge una giunta. Si passerebbe ora ad un nuovo sistema in cui il congresso non c’è più ma viene sostituito da un Consiglio di 60 membri di durata quadriennale, composto dai 21 presidenti di Comunità, 4 rabbini e per il resto da delegati direttamente eletti dagli iscritti. Questo consiglio si riunirebbe 3-4 volte all’anno (in luoghi diversi) cominciando ad eleggere una giunta di 9 persone di cui un membro è uno dei quattro rabbini. Il nuovo sistema, si dice, garantirebbe una maggiore rappresentanza diretta delle piccole comunità e una maggiore snellezza operativa. La prima garanzia è sicura, ma bisogna vedere se è sproporzionata; la seconda è una promessa incerta. Mi sembra di vedere in questa composizione qualcosa che ricorda gli Stati Generali dell’inizio della rivoluzione francese: nobili, clero e terzo stato. Non una novità, ma roba da Ancien régime, a meno che non prefiguri una rivoluzione. Per quanto riguarda le piccole e medie Comunità, è giusto che siano rappresentate anche in misura superiore alla loro consistenza numerica, altrimenti non lo sarebbero quasi per niente. Ma non vedo perché Comunità sotto ai 200 membri debbano avere ciascuna un suo rappresentante che conta quanto quello di comunità ben più numerose. Sarebbe forse più giusto un rappresentante (magari a rotazione) per gruppi di tre – quattro piccole Comunità. Quanto all’efficienza del sistema, qui cominciano i veri dubbi. Riunire per tre-quattro volte all’anno da tutta Italia dei mega-consigli (60 persone, tutti volontari con non molto tempo a disposizione) più invitati e staff, comporta uno sforzo organizzativo ed economico non indifferente. Con risultati dubbi, considerata l’esperienza quotidiana dei consigli locali. Si rischia di disperdere tempo ed energie su questioni politiche generali o istituzionali che fanno perdere di vista i problemi reali. Tanto per fare un esempio, il consiglio della Comunità di Roma in questi mesi si è riunito le ultime volte per discutere prima il problema del crocifisso nelle scuole, l’ora di religione e i minareti in Svizzera, poi i problemi della visita del Papa, quindi, dopo aver approvato in pochi minuti di discussione “bulgara” il bilancio preventivo 2010, si è dedicato alla discussione sulle dimissioni di due consiglieri, e – al momento in cui scrivo queste note – non ha ancora finito la seduta. Questo per dire che esistono infinite questioni politiche e procedurali che distolgono l’attenzione dalle questioni essenziali, e se questo succede a Roma, dove al massimo i consiglieri perdono ogni volta una o più nottate, può tranquillamente succedere nel consiglio che dovrà diventare un parlamentino nazionale. Dopo tre riunioni esaurite su questi temi, avremmo un anno di totale inefficienza. Insomma ci deve essere un sistema più funzionale e snello di quello previsto e il problema non deve essere solo quello di rappresentare tutti, perché alla fine non si rappresentano i problemi reali.
Un altro tema caldo è quello del rapporto con i rabbini. Le proposte che sono state fatte hanno sollevato, tra i rabbini, in gran parte delle proteste e solo in parte degli assensi. Il problema che premeva sui riformatori era soprattutto la difficoltà dei dirigenti comunitari di liberarsi di un rabbino capo non gradito, cosa ora possibile solo con un meccanismo molto complesso di revoca. L’Assemblea rabbinica, consultata su questi temi, ha risposto, seppure con alcune divergenze di opinione, che è d’accordo sul principio di un incarico di rabbino capo a termine, cioè definito per un certo numero di anni. Ma oltre al principio rimangono irrisolte altre importanti questioni: alla scadenza quali sono i criteri per decidere un eventuale rinnovo? E cosa si garantisce, in termini di continuità e sicurezza economica al rabbino “non rinnovato”? E soprattutto, come si può impedire che il meccanismo della scadenza a termine e del mancato rinnovo diventi uno strumento micidiale di ricatto per i rabbini che non vogliono sottoporsi a quella che molte Comunità in dissoluzione considerano l’unica missione rabbinica utile, vale a dire le conversioni ad ogni costo? La proposta di nuovo Statuto ha anche contemplato, sempre per avvilire la funzione rabbinica, la sostanziale abolizione della necessità del rabbino capo, che finora è stato un organo istituzionale; al suo posto può esserci semplicemente un rabbino, generico, senza poteri sostanziali ed esposto ancora più all’arbitrio dirigenziale. Nel rigettare quest’ultima ipotesi tutti i rabbini sono stati d’accordo, caso raro, ma indicativo. Un altro problema riguarda la Consulta rabbinica. L’assetto attuale prevede l’esistenza di una Consulta rabbinica di tre membri nominata dal congresso da una rosa di cinque candidati eletti dall’Assemblea rabbinica. I tre fanno parte del Consiglio, e uno di loro della giunta. La Consulta ha funzioni di controllo su questioni rabbiniche essenziali, come tutte le decisioni dell’UCEI che possano riguardare la halakhà, nonché la vigilanza sulle scuole rabbiniche. La riforma non è chiara sul destino della Consulta rabbinica, il che sarebbe un’enorme falla istituzionale, mentre la composizione della compagine rabbinica nel “gran” Consiglio (sarebbe quella la nuova Consulta?) è strana; due rabbini capi ad ingresso automatico (quelli di Roma e Milano), più due scelti dall’Assemblea rabbinica. Visto che tre su 60 erano pochi, si è voluto dare un contentino in più, salendo a quattro, ma nessun consesso rabbinico che debba decidere qualcosa può essere di numero pari. Sui criteri di scelta dei quattro, l’Assemblea rabbinica ha protestato; personalmente, come parte in causa, debbo tacere, mentre caldeggerei la candidatura del rabbino di Milano, prima di tutto perché è mio amico e poi perché è saggio ed equilibrato; scherzi a parte (non sulla serietà di rav Arbib), anche questa strana soluzione di selezione andrebbe ponderata meglio, perché le risorse rabbiniche in Italia, oltre ad essere scarse, sono anche mal distribuite e mal utilizzate e non ci si può limitare a pensare solo ai rabbini capi.
Insomma: è molto giusto dibattere su temi organizzativi così importanti, ma bisogna aver cautela prima di scegliere soluzioni radicali e affrettate che potrebbero portare ad effetti imprevisti e dannosi.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma