Istantanee – Perach la-nizzol (“Un fiore per il sopravvissuto”)
“Stasera ho il ‘fiore’: non torno per cena”, aveva comunicato lapidariamente Itamar alla madre, chiudendo il telefono.
“Fiore?!” fece eco perplessa la madre, ma lui aveva già chiuso la comunicazione. Aveva indossato una divisa stirata; il fiore l’avrebbe portato Noa, una soldatessa bruttina, ma che un po’ gli piaceva. Si trovarono sotto l’edificio dove abitava la sopravvissuta dalla Shoah, con cui avevano appuntamento quella sera; l’esercito aveva organizzato incontri tra soldati e sopravvissuti, all’insegna del motto: “un fiore per il sopravvissuto”.
La loro sopravvissuta li aveva già bidonati due volte, ma loro non si tiravano indietro.
Mentre salivano le scale, fianco a fianco, i loro occhi si incrociarono imbarazzati: da quando erano nati avevano nelle orecchie il suono delle sirene che commemoravano il giorno della Shoah; avevano letto sui libri di scuola la testimonianza degli orrori più atroci; avevano sentito i discorsi degli insegnanti e del direttore e seguito le interviste alla televisione, ma un sopravvissuto non lo avevano mai affrontato a tu per tu.
Le loro famiglie erano venute dall’Europa prima delle persecuzioni: la famiglia di Itamar si era installata nel primo quartiere ebraico di Tel Aviv, i genitori di Noa si erano incontrati in kibbutz. “…mah! Non so cosa proprio cosa dirle…” fece a bassa voce Noa, come parlando tra sé. Il piccolo grugnito di assenso che le venne dalla parte di Itamar la rincuorò un poco. Itamar era lungo lungo e magro, sembrava proprio un palo del telefono conficcato di fronte alla porta, pensò Noa, prendendo coraggio dal suo impaccio per decidersi a suonare. La sopravvissuta aprì la porta con un sorriso gioviale, recuperò con destrezza il fiore che pendeva malinconicamente dalla mano di Noa e fece accomodare gli ospiti in salotto. Un “salotto polacco” , con pesanti poltrone di velluto color senape col poggiatesta di trine all’uncinetto e fiori di stoffa nei vasi. Alle pareti erano appesi quadri a olio, con boschi, laghetti e cigni; un gatto grasso e rossiccio li sorvegliava dal divano. La sopravvissuta sparì svelta in cucina, riemergendone subito con un vassoio di metallo argentato con i bicchieri per il tè e una torta di cioccolata.
“Osem!” annunciò con una risatina confidenziale, lei non aveva tempo per fare i dolci, li comprava al supermercato – del resto, le torte della “Osem” erano decisamente più buone delle sue… Era piccolo e rotondetta, con un viso dorato di cipria e le labbra tinte di rosa vivace. Mentre i due soldati sorbivano il tè, lanciando furtive occhiatine intorno, lei se li guardava ben bene; alla fine del rapido, ma accurato esame, emise un sospiro complice e, alzatasi con slancio dalla poltrona, corse via. La sentirono frugare in un’altra stanza:”Adesso arriva con le foto di famiglia”, sussurrò Noa e Itamar annuì in fretta, mettendosi un dito sulle labbra: “Occhio, non è sorda!!”, diceva l’indice di Itamar.
Il gatto sbadigliò, accigliato, poi salto giù dal divano e andò incontro alla padrona, mettendosi alle sue calcagna. Lei tornò con due barattolini, si risedette, assestandoseli in grembo, e entrò subito in argomento :”Sei proprio carina – fece, rivolta a Noa – però, la pelle…Hmm! La pelle bisogna curarla di più, con questo clima!”
“…ma io sono nata qui!” – protestò Noa. “E meno male!! “tagliò corto la sopravvissuta, “ma la pelle è una cosa delicatissima! Pensa, una cosa tanto fragile ci difende da quando siamo nati: non bisogna aiutarla un po’?”. Si guardò intorno un attimo, in cerca di ispirazione, poi spedì Itamar a dar da mangiare al gatto. Approfittando di essere sole per un momento, spiegò a Noa come curare i foruncoli e come rendere la pelle luminosa. Aveva certe ricette di creme che faceva sua nonna a Cracovia, altro che Helena Rubinstein. Una volta arrivata in Palestina, dopo il lager e dopo il campo a Cipro, aveva subito capito che bisognava aggiornarsi ed era andata a studiare da estetista, era stanca di avere la pelle bruciata dall’aria calda del Paese. “E, poi, sciogliti i capelli, vedrai che figurone fai”, disse col tono più naturale del mondo; Noa si rese conto all’istante che non le restava che ubbidire. “Krasavitza! Bellissima!- fece la sopravvissuta gioiosamente – voi due mi chiamate signora Fleiszman, ma il mio nome è Eva: cara bambina, dammi retta”. Si chinò in avanti, confidenziale, e spiegò che il suo problema era la pelle troppo bianca: “Ce l’avevano tutte le donne di famiglia, mia madre e sei sorelle…: in Polonia era una gran bella cosa, ma, quando sono arrivata qui, mi chiamavano “faccia da morta”, “saponetta”, ma per il bucato, capisci?”.
“Saponetta?”, fece Noa, non troppo sicura di aver capito. “Be’, ‘saponetta’ erano tutti i reduci dai campi di concentramento agli occhi degli ebrei di qui, ma…’saponetta da bucato’ ero solo io: un bel guaio!”, spiegò Eva e fece un piccolo gesto con la mano: “Così va la vita, bambina mia, ognuno è affezionato a quello che conosce, mica bisogna prendersela…Quando verrà il Messia, capiremo anche questo. Io, lo vedi?, metto la cipria scura così questo biancore lo vedo solo io, al mattino, e sai che? Sono contenta della mia pelle di latte- l’orgoglio delle donne di casa mia, in Polonia, però”.
Tornò Itamar, scortato dal gatto che miagolava penosamente : “Gli ho dato da mangiare, come mi aveva detto lei, ma mi sembra scontento”, osservò , un po’ avvilito, perché gli piaceva il diversivo del gatto per rompere il ghiaccio della Shoah.
“Ah, Mitzi! Che gatto simpatico! – esclamò Eva – è come gli uomini, quando stanno bene, si lamentano! Non ci fare caso… Quando stavamo laggiù , chi si lamentava? Eravamo troppo occupati con tutte le tzures, chi aveva la forza di lamentarsi? ” e, indirizzandosi in particolare a Noa, enunciò: “Mio marito – di benedetta memoria – cominciava la giornata così: Eva?! Perche’ non hai ancora acceso la stufa: si gela! Eva?!, Il gatto miagola che mi ha fatto diventare sordo, ma gli darai da mangiare una buona volta? Eva dove sei? …Già fuori a spettegolare con la vicina – e io son qua che muoio di fame…Eva! Accidenti a te! Fatti vedere almeno, così dico ‘buongiorno’ alla mia disgrazia…”.
Di fronte alla faccia dei due ospiti, la signora Fleiszman si sentì in dovere di aggiungere: “Vediamo di capirci, ragazzi. Ho incontrato mio marito nel campo a Cipro, era lo stesso Dov Baer che mi faceva il filo, quando eravamo ragazzini a Cracovia, un miracolo! Il nostro è stato un matrimonio proprio d’amore, abbiamo fatto tre splendidi figli insieme, e ci siamo adorati sino all’ultimo, quando il mio Dov è morto schiacciato da un torpedone – riposi in pace! Ma la vita è la vita e gli uomini son fatti così”.
Poi fece vedere le foto dei tre splendidi, che avevano studiato tutti all’università, e della relativa prole. Fuori era già buio: “Ragazzi – disse la signora Fleiszman – è ora che torniate alla base. Della Shoah avete già sentito parlare abbastanza a scuola, ma… è sulla vita che avete ancora un po’ da imparare. Per conto mio, io adesso devo andare: vado a spiegare come curare la pelle alle donne del ‘rifugio per le mogli picchiate’, e mi sa che ne hanno bisogno”. Mentre li accompagnava alla porta, tese a Noa il sacchetto di plastica con i barattoli di crema: “La pelle è proprio un miracolo, così delicata e così forte. Ricordati! … e dalle una mano a proteggerti, perché da quando sei viva ti porti dietro un miracolo – e magari te lo scordi”.
Già mentre scendevano le scale, Itamar si accorse che Noa gli sembrava proprio carina.
Marina Arbib