Davar Acher – Yom ha Shoà, il nostro modo di ricordare

Questa sera, nel mondo ebraico, inizia Yom ha Shoà. Non la cerimonia civile europea del Giorno della Memoria, con tutta la sua popolarità pubblica e l’importanza rispetto al sentire comune della società italiana che sappiamo, ma anche con tutte le ambiguità che sono progressivamente emerse negli ultimi anni: paragoni impropri con altre stragi, col trattamento attuale degli immigrati o addirittura con la politica difensiva dello Stato di Israele, dibattiti viziati da volontà propagandistica sul ruolo di soggetti terzi come la Chiesa, un certo generale buonismo che rischia di occultare i meccanismi veri della distruzione dell’ebraismo orientale.
Yom ha Shoà è invece una ricorrenza nostra, una cerimonia che rappresenta forse la prima cellula della elaborazione storico-religiosa della grande tragedia che il nostro popolo deve ancora metabolizzare secondo i tempi lunghi e i modi caratteristici del pensiero ebraico. Una linea di riflessione non banale può essere suggerita dal nome ebraico della ricorrenza, che non è semplicemente Yom ha Shoà, il ricordo del “disastro” che l’Europa ha inferto al nostro popolo con responsabilità differenziate, ma certo non tutte riconducibili alla persona di Adolf Hitler o all’azione del suo partito. La ricorrenza è chiamata in Israele Yom ha Shoà Vegvurà, giornata della sciagura e dell’eroismo (o, se vogliamo risalire un po’ più indietro nell’etimologia, addirittura della forza). Gvurà è un termine che appartiene alla nostra tradizione religiosa, che per esempio compare fra le benedizioni del mattino (“Tu che cingi Israele di eroismo”).
Rispetto all’immagine comune della Shoà, quella per intenderci che si celebra comunemente nel Giorno della Memoria, c’è un’evidente incongruenza. Non potrebbe esserci accostamento più stridente col paradigma della vittima non solo innocente ma quasi inconsapevole che è diventata in Europa la lente dominante dell’interpretazione popolare della Shoà. E’ chiaro che durante la Shoà ci sono stati degli eroi, nel senso comune del termine, i Giusti delle nazioni, innanzitutto, ma anche i resistenti che si sono ribellati a Varsavia come altrove. Si può notare come costoro, nell’immaginario popolare rappresentato dai film di successo, abbiano di recente preso un’immagine un po’ gaglioffa, da avventurieri o vendicatori da strapazzo. Anche se questa non è certo la verità storica, sappiamo dagli scritti dei sopravvissuti, per esempio di Primo Levi, come l’esperienza della Shoà non sia stata per lo più affatto eroica in questo senso, perché i deportati erano costretti dentro una macchina costruita per umiliarli e toglier loro la dignità prima di ucciderli e certo non in condizione di opporsi con la forza fisica ai loro aguzzini.
Eppure è importante pensare che vi sia stata gvurà nel popolo ebraico perseguitato, vi sia stata cioè la capacità di opporre l’ebraismo alla barbarie. E’ quel che tante testimonianze riferiscono. E’ importante farlo per onorare la memoria delle vittime, per restituire loro una faccia e un comportamento ebraico (anche questo vuol dire Iad vashem); ma anche per contrapporsi all’idea che l’ebreo buono sia la vittima, l’agnello sacrificale, come in fondo ci vorrebbe ancora oggi l’Europa civile e progressista, che ci ama come vittime e ci rimprovera oggi di difenderci. La Shoà, come la vediamo noi, è un momento di lutto, ma anche di gvurà, di sciagura e di eroismo. Come tanti altri episodi nella nostra storia, disastri riscattati dalla volontà, dalla capacità, dalla fede necessaria per non lasciarsi abbattere e continuare la nostra strada. Questo dice la nostra memoria storica in formazione e non dobbiamo certo meravigliarci che sia diverso da quel che dice agli europei il loro Giorno della Memoria.

Ugo Volli