Liliana Picciotto presenta Un paese non basta di Arrigo Levi

Una ventina di giorni fa, nella bella cittadina di Carpi, Arrigo Levi, cui mi lega una più che ventennale amicizia di cui vado molto fiera, ha avuto la gentilezza di presentare il mio ultimo libro sul campo di Fossoli dal titolo L’alba ci colse come un tradimento. Stasera, sono onorata di poter ricambiare il favore, presentando io a Milano, assieme al Presidente del CDEC, Sacerdoti, il suo Un paese non basta.
E’ questa la storia di un’esistenza policentrica: per i molteplici luoghi abitati, per i molteplici tempi vissuti, per i molteplici interessi toccati, perfino per le molteplici sue lingue parlate: inglese, spagnolo, francese, un poco anche di russo e di ebraico. Arrigo in questo libro narra di sé, della sua formazione, del mondo circostante, con i suoi sviluppi e le sue involuzioni di civiltà; e, per noi che lo leggiamo, è un modo unico e fortunato di passare in rassegna tutto un secolo.
Il suo viaggio inizia dalla sua Modena, dalle origini dei suoi due ceppi famigliari, i Levi e i Donati, portatori di un senso antico di onestà, giustizia, operosità, apertura verso il prossimo; valori tipici della borghesia ebraica illuminata dell’epoca, non osservante,ma consapevole della propria identità. Ci sono nel libro passaggi commoventi di devozione verso il padre Enzo, avvocato antifascista molto in vista a Modena, punto di riferimento morale per tutta la famiglia, sollecito custode della sicurezza dei figli. Al momento delle persecuzioni fasciste, si vide costretto a far emigrare la famiglia in Argentina, ritornando in patria il 2 giugno 1946, esattamente il giorno felice delle prime libere elezioni in Italia dopo il ventennio fascista. Purtroppo, a un anno soltanto dal suo ritorno in patria, Enzo Levi morì di malattia. Ma per Arrigo non morì mai; così dice nel libro:” Io sento davvero di avere vissuto tutte le esperienze della mia vita come fossero null’altro che la continuazione naturale della vita di mio padre” . E non è solo alla memoria di suo papà che Arrigo fa appello per trovare, negli anni giovanili, la sua strada di uomo; egli fa appello a tutti i suoi predecessori: “Ogni uomo ha nella mente e nell’anima un secolo di memorie; e i ricordi di alcuni momenti della vita dei padri sono spesso assai più vivi, e più fortemente incisi nella coscienza di quelli, incerti o casuali, della propria prima infanzia.”
E che dire della madre? La lettera ai figli, scritta lo stesso giorno della morte del marito è di una rara e purissima poesia, un inno d’amore, e siamo grati ad Arrigo per non averla solo conservata in un cassetto ma di averla pubblicata.
L’antisemitismo e la shoah ritornano continuamente nel libro come un nodo non risolto. Arrigo sempre e in ogni caso, si sforza di interpretare e comprendere il mondo circostante, ma la shoah rimane per lui, come credo per tutti noi, un grande interrogativo umano, un tarlo che tormenta la mente non solo di noi ebrei, ma di tutti gli uomini. Per la sua inutilità, per la sua semplicità di svolgimento, per l’ingenuità dei suoi obiettivi e, tuttavia quasi vincente per la sua pervicacia e automatismo criminoso. “Perché gli uomini possano trattare in un modo così disumano altri uomini non è dato comprendere” dice ad un certo punto Arrigo, sconsolatamente. Ma egli non ricorda solo la shoah, si ricorda anche di non dimenticare i giusti, coloro che si sono adoperati per il soccorso agli ebrei in pericolo, le innumerevoli suore e preti sparsi in tutta Italia, i villici del paese di Nonantola che aiutarono i ragazzi ebrei ospitati a Villa Emma a “sparire” dalla circolazione e a passare in Svizzera, il professor Tosatti che operò lo zio Enrico Donati di appendicite senza che questi ne avesse bisogno per sottrarlo alla prossima deportazione da Fossoli, al taxista di piazza che, come in un film, venne a prelevare lo zio all’uscita dal’obitorio sotterraneo dell’ospedale per portarlo di nascosto lontano.
I Levi vivono l’epoca delle persecuzioni in Italia in Argentina, a Buenos Aires. Sono gli anni importanti dell’università, dell’affermazione della sua vocazione giornalistica, dell’intuizione della futura virata autoritaria che flagellerà in effetti l’Argentina con il peronismo e il regime dei colonnelli. Levi ama profondamente la sua seconda patria, la sua seconda cultura spagnola, la sua seconda lingua, dice infatti: “ arrivare a Madrid o a Buenos Aires, o in un’altra grande città dell’America latina , da Città del Messico a Santiago del Cile, è sempre un po’ tornare a casa. Sono un po’ come un mio patrimonio segreto…” .
I due anni successivi al rientro a Modena, furono gli anni dell’ ingresso formale nella carriera giornalistica di Arrigo e di una vita impregnata di passione politica, di letture, di studi, di ritrovata identità nazionale. Arrigo ama l’Italia, si è sempre considerato un italiano dalle molte patrie. Ma c’è qualcosa che lo turba: in un angolo del Medio Oriente c’è un piccolo Stato chiamato Israele i cui abitanti rischiano la loro sopravvivenza, è lo spauracchio del genocidio che si ripresenta. Queste sono le sue parole: “Era per me, molto semplicemente, intollerabile il pensiero che si volesse e si potesse “buttare a mare” quella piccola comunità ebraica di alcune centinaia di migliaia di sopravissuti, ciò che gli stati arabi dichiaravano essere loro precisa intenzione”.
E più in là: “A me sembrò che non sarebbe valsa la pena di vivere se anche questo disastro si fosse realizzato”, e ancora: “avevo il senso di un particolare dovere di ebreo europeo che aveva avuto la fortuna di scampare alla shoah, che viveva per così dire, una vita in dono o in prestito…”.
Si decise ad arruolarsi come volontario, partì nel giugno del 1948 per Israele, dopo un breve addestramento militare, con alcuni giovani ebrei italiani. Alcune impressioni di Levi sul Paese sono di un lirismo assoluto, come il seguente passaggio:”salendo dalla pianura, …in alto c’era, sublime, sulla cresta della montagna che, dall’altra parte , scendeva verso lo sprofondo del Mar Morto, Yerushalaim, la città santa, rinchiusa nelle sue rosee mura turrite, su cui si potevano intravvedere i soldati della Legione araba giordana. Gerusalemme confina con il cielo, come nessuna altra città; e questo mi ha sempre comunicato un miscuglio di esaltazione e di paura”. Provo esattamente questa sensazione ogni volta che in taxi, dall’aeroporto Ben Gurion salgo verso Gerusalemme, è un colpo al cuore che si ripete e che Arrigo ha descritto nel libro così bene.
E in un altro passaggio tratto dal taccuino che tenne in Israele durante la guerra, un’ altra osservazione mi ha colpita: “ Domina nella mia mente l’immagine di un paesaggio a chiazze, ma in prevalenza ancora desertico; si udiva nella notte, vicinissimo, l’urlo ossessivo degli sciacalli. Quando tornai in Israele, 25 anni dopo, tutto era cambiato, il paesaggio si era come ricomposto a unità, non c’erano più zone d’aspetto desertico e da anni non urlavano più gli sciacalli”. Mi è venuta subito in mente una visita che feci nel 1993 ad Ada Sereni nella sua Beth Avrà, poco sopra l’ospedale Hadassa a Gerusalemme, dove viveva. Mi ci recai assieme a Shimon. Lei era già una donna di 88 anni, bellissima nella sua altera vecchiezza, con un filo di perle al collo e i capelli perfettamente a posto. Aprì la finestra che dominava la vallata sottostante e mi disse: “ vedi, quando io arrivai in questo paese predominava il colore giallo, era tutto disperatamente giallo, oggi predomina il verde, sono felice perché vuol dire che il paese è vivo e ridente e vivrà per sempre”.
E, ancora, a proposito del deserto del Negev dove Levi fu di stanza come soldato per alcuni mesi: “…L’alba spalanca un vasto, struggente panorama. La prima fermata è alle nove, in una specie di anfiteatro naturale di rocce affacciato sul paesaggio desertico, un inatteso arco di colline, rosate dal sole che sorge, la curva di un fiume asciutto, le rive scavate dall’acqua che non c’è…Un paesaggio maestoso , vuoto e senza fine che suscita sentimenti strani. Il fascino del deserto è inatteso e emozionante. Si aggirano nella mente suggestivi ricordi biblici…” e più in là: “…viaggiamo verso sud-est , su lunghi rettilinei, con all’orizzonte lontane montagne luminose, in un tramonto esaltante, con luci che danno strani colori alle rocce e alla sabbia”. Arrigo, evidentemente, descrive,nel suo taccuino, non la terra ma ciò che la terra gli dice. Queste descrizioni sono tra i punti più alti del libro dal punto di vista letterario.
Alla fine della guerra d’indipendenza d’Israele, Levi sarebbe potuto rimanere, ma fedele alle sue premesse: – “Non presi la decisione di partire in Israele perché fossi sionista” aveva detto – si mette a cercare nuovi obiettivi che accontentino la sua sete di larghe prospettive. Gli pesa un po’ il problema della lingua che non è la sua, pensa che dovrà ancora viaggiare, studiare, conoscere il mondo. E, con la felice frase che dà titolo al libro, in una lunga lettera a una sua amica argentina scritta da Israele, dice: “Forse un paese non mi basta”. Lascia Israele con un profondo senso di ammirazione, dice che il paese è intento a realizzare la giustizia sociale, non per via rivoluzionaria, ma sulla spinta di necessità nazionali, più importanti di qualsiasi individuo. Da acuto osservatore, vedeva la pace, allora, più vicina di quanto l’abbia vista poi, senza mai cessare di sperare in essa e di invocarla mediante il dialogo tra lo Stato d’Israele e gli stati arabi.
Arrigo sceglie per sé non una, ma molte coscienze nazionali, l’italiana, l’argentina, l’ israeliana, più tardi quella inglese. Tutto è un arricchimento della personalità e in realtà tutto serve a ciò che gli sta a cuore: superare il concetto di nazionalità. Scrive da mazziniano convinto: “è giusto e doveroso a un certo punto dell’umanità passare a un autentico umanesimo supernazionale”.
Levi torna dunque in Italia, si laurea in filosofia con una tesi sulla Bibbia e lui, che si dichiara non credente ma che è pieno di curiosità per il fenomeno religioso, si rivela una persona dall’umanità “consapevole”, portatore di una fede laica che svolge una continua ricerca della verità e della giustizia. Crede anche nel dialogo tra le religioni, come una delle grandi e creative esperienze culturali e civili, scrive, in questo nostro tempo di luci e di ombre.
Dopo la laurea è indeciso sulla strada da intraprendere, è ormai il 1950, si reca a Milano per chiedere consiglio ad un giornalista affermato. Questi gli procura un posto a Londra alla “Voce di Londra”, proprio quella mitica radio che molte volte lui e tanti antifascisti avevano ascoltato clandestinamente dall’Italia nel periodo nero della mancanza di libertà.
Lo attendevano una nuova patria e altri più grandiosi traguardi di giornalista, di uomo di cultura, di cittadino della libertà, di uomo pubblico di riferimento.
Grazie Arrigo per averci permesso, nello spazio di un libro, di essere stati con te un po’ al centro del mondo.

Liliana Picciotto