Qui Ferrara – “La cultura rabbinica in Italia, la sua storia e le sue prospettive”
Il saluto di Riccardo Calimani al pubblico presente nella sala Agnelli della Bibioteca Ariostea di Ferrara al termine del Convegno ‘La cultura rabbinica in Italia: la sua storia e le sue prospettive’ cui hanno partecipato il rav Luciano Caro, rabbino capo di Ferrara, il professor Dario Calimani dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, il professor Umberto Fortis, studioso di ebraismo e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni oltre al rav Roberto Della Rocca, direttore del dipartimento Educazione e Cultura dell’Ucei, in qualità di moderatore, ha rappresentato il momento conclusivo della Festa del Libro ebraico in Italia che si è svolta a Ferrara in questi giorni.
A dare il via al convegno sulla cultura rabbinica in Italia, subito dopo una breve introduzione del Rav Della Rocca, il rabbino Caro che ha fatto una breve carrellata dei rabbini ferraresi le cui prime testimonianze risalgono al XII, nella città di Ferrara coesistevano comunità diverse, dice il Rav, a loro volta divise in sottogruppi ciascuno dei quali aveva il suo rabbino, fra questi il rav Caro ha ricordato la figura di Moshè Ben Meir, ma anche Yaakov Olmo, Elia da Ferrara, Isacco Lampronti e la sua enciclopedia Pahad Itzhak.
Dal particolare al generale “La cultura dell’ebraismo italiano: un mito?” titola il contributo del professor Dario Calimani, partendo da una osservazione di fondo: l’ebraismo italiano è uno strano fenomeno, dice Calimani, fuori quasi non si conosce e in Italia, lo si pensa come una realtà di vaste proporzioni. La storia degli ebrei italiani non è mai stata facile, ammette il professor Calimani, ma fino alla Shoah “non non si sono mai avute tragedie nazionali, come è accaduto invece in Inghilterra, Germania, Polonia, Russia, anzi “Medioevo e Rinascimento hanno favorito lo sviluppo di una cultura che ha dato germogli per almeno due secoli, e fino al Settecento. La scuola rabbinica di Trani, nel lontano Medioevo, era nota in tutta Europa; al rabbinato di Venezia, nel ’500, faceva ricorso Enrico VIII d’Inghilterra alla ricerca di puntelli biblico-teologici per il suo divorzio dalla cattolica Caterina d’Aragona”.
Dove è finito quell’ebraismo? Si domanda allora il professor Calimani,e ancora, “che non si tratti solo di un problema di percentuali?’” Se si paragona, infatti, il numero degli ebrei italiani più o meno costante nel corso del tempo (fra i trentamila e i cinquantamila) e il numero degli ebrei francesi, inglesi o addirittura americani, il contributo culturale dell’ebraismo italiano sarebbe da considerarsi con tutto rispetto.
“L’ebraismo italiano ha in effetti una storia illustre” dice il professore passando a tracciare il lungo cammino che si snodandosi lungo la Penisola e nel tempo parte dalla Sicilia del VII secolo e giunge fino ai nostri giorni, contando sul contributo di molti nomi illustri come Ovadiah da Bertinoro, Ovadiah Sforno, Judah Mintz, Azariah dei Rossi, ma anche in tempi più recenti, Itzchak Shmuel Reggio, e Shmuel David Luzzatto, il famoso SHaDaL, Eliah Benamozegh e ancora ai primi del’900, Umberto Cassuto eppure è come se dopo l’emancipazione esso abbia un po’ perduto la propria identità “non è stato più recuperato il senso della cultura e la capacità di produrre cultura”
A riconsegnare all’ebraismo (e non solo a quello italiano) la propria identità è sì la fondazione dello Stato di Israele, ma “l’ebraismo italiano è un po’ alla Zelig alla ricerca della perduta identità” eppure gli strumenti non mancano e sarebbe ora necessario attraverso questi strumenti tornare finalmente a dare nuovi impulsi, produrre nuovi stimoli culturali, di studio e di ricerca.
Il professor Umberto Fortis traccia un profilo dell’impegno letterario dei rabbini nell’età dei ghetti, Baruch Sermoneta, Azarià De Rossi, i dialoghi dell’amore di Leone ebreo.
A concludere la carrellata degli interventi il rav Riccardo Di Segni che propone un’attenta analisi dei mutamenti del rabbinato italiano negli ultimi cento anni. “Mutamenti – ha ironizzato il rav – il titolo andrebbe un po’ messo in crisi perché bisognerebbe vedere se effettivamente questi movimenti ci sono stati”. Cita Immanuel Chai Ricchi, cabbalista sfrenato e ancora Itzhak Lampronti che in epoca di enciclopedie si inventa un’enciclopedia ebraica, due rabbini diversissimi fra loro, ma – spiega il rav – questa coesistenza di rabbini così diversi è un modello che si sperimenta spesso all’epoca, Lampronti è però più vicino alla figura attuale del rabbino italiano. Attualmente il rabbinato italiano appartiene alla nuova ortodossia o ortodossia moderna non è avulso dal contesto e non ha fatto grande fatica ad infilarvisi. Nella prima metà del ‘900 uno su tre rabbini non era italiano di nascita ma lo era di formazione rabbinica.
Attualmente la situazione è molto diversa, ci sono rabbini che operano con una tradizione che non ha nulla a che vedere con quella italiana, come quelli Chabad.
La Shoah oltre ad aver falcidiato l’ebraismo italiano ha anche reciso drasticamente un grande numero di menti rabbiniche, e negli ultimi decenni studiosi importanti come Roberto Bonfil e Ariel Toaff pur avendo studiato nelle scuole rabbiniche italiane hanno indirizzato le proprie energie nell’approfondimento della speculazione storica anziché a quella rabbinica eppure questo rabbinato italiano continua a produrre dei frutti “Quello di ci cui sentiamo la mancanza, ha detto concludendo il rav Di Segni, è una straordinaria mancanza di forze, finora ce l’abbiamo fatta, speriamo di continuare a farcela”.
Lucilla Efrati