Green economy e danno ambientale, una mediazione difficile

L’immagine della settimana è la marea nera che sta per strozzare le coste della Lousiana. Una piattaforma petrolifera si è rotta al largo al momento dell’impianto, rovesciando in mare decine di migliaia di barili di «oro nero» al giorno. Si calcola che saranno complessivamente cinquecentomila i barili sversati. Una tragedia ambientale gigantesca, arginata senza molta convinzione con solventi, incendi provocati, barriere di efficacia dubbia. Tra poche settimane una campana di acciaio dovrebbe essere collocata sul fondo dell’oceano, in corrispondenza della falla, in modo da bloccare la fuoriuscita e – è proprio il caso di dirlo! – metterci una toppa.
Negli stessi giorni è stata inaugurata a Shangai l’Esposizione universale d’Architettura che ha al centro la questione ambientale. Se in passato questa manifestazione si traduceva in edifici e padiglioni fissi, nelle ultime rassegne e in futuro (Milano 2015) gli sforzi si concentrano sulla sostenibilità ambientale, sul recupero e sul riciclo dei materiali, sullo sviluppo e sulla diffusione di buone pratiche.
Nella Tradizione ebraica, com’è noto, il Signore affida la Terra all’uomo perché la lavori e la custodisca, sfruttandola senza danneggiarla. Tra gli altri, fu proprio Hans Jonas a affrontare in anticipo questo problema, declinandolo sul piano della responsabilità verso le generazioni future. É evidente che non ci sono risposte, ma che i rischi sono molto concreti. Oggi si parla molto di green economy, cioè delle tecnologie in grado di ridurre il danno ambientale e di far ripartire l’economia. Benissimo. Però attenzione: in tempo di crisi, comprensibilmente, si parla anche di «crescita». Ma la «crescita economica» non è una linea crescente nel diagramma del Pil: sono più case, più fabbriche, più automobili, più energia, più oggetti prodotti, più consumi… Pensiamoci.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas