Qui Bologna – Dialogo, gli interventi all’Archiginnasio

Il rabbino capo di Bologna rav Alberto Sermoneta e il Presidente della Comunità ebraica di Bologna Guido Ottolenghi hanno pronunciato i seguenti discorsi in occasione dell’incontro con l’arcivescovo di Bologna monsignor Carlo Caffarra alla sala dell’Archiginnasio della città emiliana. All’avvenimento erano presenti fra gli altri il magnifico rettore dell’ateneo bolognese professor Ivano Dionigi, la Presidente della Provincia di Bologna Beatrice Draghetti, la vicepresidente della Regione Emilia Romagna Giuseppina Muzzarelli, il professor Alberto Melloni della Fondazione per le scienze religiose e molte autorità religiose, civili e militari. (Nelle immagini l’ingresso del cardinal Caffarra e del rav Sermoneta e, fra i partecipanti, l’archimandrita Dionisos Papavassilou, lo sceicco Abdal Wahid Pallavicini e l’imam Sergio Yahaia Yahe).
Salmo 150
Lodate il Signore, lodate Iddio nel Suo Santuario,
Lodatelo nel firmamento, simbolo della sua potenza.
Lodatelo per le sue prodigiose gesta,
Lodatelo come merita la sua immensa grandezza.
Lodatelo con il suono dello shofar,
Lodatelo con il liuto e la cetra.
Lodatelo con il timpano e la danza,
Lodatelo con l’organo e con il flauto.
Lodatelo con cembali sonori,
Lodatelo con cembali risonanti.
Ogni anima lodi il Signore Hallelujà.

Con questo salmo si completa la grande raccolta che va sotto il nome di Tehillim, meglio conosciuta come I Salmi di David. In esso l’autore descrive tutti gli strumenti musicali che venivano usati per accompagnare le offerte sacrificali al Signore. Re David autore di questa grande composizione conclude la sua opera affermando che l’uomo ha il dovere, durante la sua vita di arricchirla spiritualmente, riconoscendo la grandezza e la misericordia divina, rivolgendo all’Eterno le sue preghiere.
L’elenco degli strumenti musicali riportati nel testo, vogliono simboleggiare e rispecchiare in modo completo tutti i sentimenti umani e le potenzialità spirituali che possono essere suscitate persino dalla musica.
Fanno notare gli esegeti che il verbo che induce alla lode a Dio HALLEL è ripetuto per ben tredici volte, in corrispondenza dei tredici attributi di misericordia divina che furono rivelati da Dio a Mosè sul Monte Sinai, quando per quaranta giorni e quaranta notti, si rivolse a Lui supplicandolo di perdonare il popolo che si era macchiato dell’infame colpa di idolatria.
Il popolo si era sì macchiato di una grave colpa, un’onta indicibile, ma alle pendici del Sinai, aveva accettato la volontà divina senza alcuna sorta di esitazione o ripensamento, assoggettandosi alle Sue leggi.
Un popolo che nasce nella sofferenza della schiavitù egizia, che vede negati tutti i diritti di cui un uomo deve godere, persino quello di credere in una divinità rispetto ad un’altra.
Dalla sofferenza alla libertà, dal  Passaggio del Mar Rosso, al ricevimento della Torà che simboleggia il diritto all’esistenza ed alla vita.
La libertà, un bene a cui ogni uomo moderno e che vive in un mondo democratico, non rinuncerebbe mai, ma che nell’antichità era riservata soltanto a pochi potenti e la sua negazione era sinonimo di forza e potere.
Gli Ebrei furono i primi a far conoscere questo bene di “primaria necessità” al mondo intero, sacrificandosi in prima linea per mantenerlo anche attraverso l’osservanza della Legge.
Una Legge che non fa parzialità, ma accomuna tutti gli uomini che in essa si riconoscono, e che con la buona volontà si ritrovano ad operare per il proprio bene e per quello del prossimo.
Nella Torà, Levitico, capitolo 19 è scritto:“we ahavtà le re’akhà kamokha” “amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Il grande Maestro del II secolo dell’Era Volgare, Rabby ‘Akivà commenta: ciò che è scritto è una regola fondamentale della Torà, che ha il valore di tutta la Torà stessa; in quanto chiunque ha il dovere di amare e rispettare il suo prossimo, aiutandolo a superare momenti difficili come se si trattasse di se stesso.
Eppure nonostante ‘Akivà affermi di rispettare ed amare il proprio prossimo,insegnando le parole del “Dio Vivente”   fu messo a morte dal potere di Roma.
Fu sommariamente processato e gli fu riservata una delle condanne più terribili che l’uomo abbia mai potuto subire: fu impalato, scuoiato vivo e lasciato morire nell’atroce sofferenza.
Racconta il midrash, che mentre esalava l’ultimo respiro, pronunciando la professione di fede del nostro popolo, “Shemà Israel A’ Elohenu A’ echad” “Ascolta Israele il Signore è nostro Dio, il Signore è unico” – una voce celeste pronunciò:” beato te ‘Akivà che nella vita hai fatto il bene nei confronti degli uomini e durante la tua agonia hai esaltato il nome di Dio simbolo della vita e della libertà per ogni uomo”.
Allo stesso modo, molti secoli prima, Re David aveva composto il libro dei Salmi, con l’intento di far sì che, proprio con le parole con cui si conclude il salmo in questione, “col ha neshamà tehallel Jah” “ogni anima lodi l’Eterno”.
Il termine nesciamà, tradotto superficialmente anima, vuole in realtà esprimere il grado più alto dello spirito vitale dell’uomo, un’ anima degna di essere quasi alla stregua di Colui che l’ha creata.
La nesciamà, infatti è la parte più elevata dello spirito vitale, quello spirito che nella Creazione, Iddio soffiò nelle narici dell’uomo, creato a Sua immagine e somiglianza.
Lo stesso grado di elevatezza spirituale che Re David ebbe nel progettare e nel voler realizzare il Tempio di Gerusalemme, opera  che fu poi compiuta da Suo figlio Salomone, e che esprime il desiderio che si avveri quanto ribadito più tardi dalla profezia di Isaia di realizzare in esso il “luogo di preghiera per tutti i popoli della terra”.
Ma il Tempio,  simbolo  di fratellanza e di pace tra gli uomini, fu distrutto dai pagani, i quali, non avendo riguardo per l’unico Dio, non l’ebbero nemmeno per gli esseri umani: per due volte Israele tornò a perdere la libertà di vivere nella terra promessa da Dio ad Abramo – terra che sarebbe stata retaggio per tutte le generazioni che sarebbero discese da lui – Abramo- il popolo ebraico.
Il popolo ebraico nella Diaspora fu perseguitato in ogni epoca: dagli Assiri ai Babilonesi, dai Greci, ai Romani, ed ogni volta che si apriva uno spiraglio di luce per un futuro meno scuro, immediatamente si ritornava nel baratro delle persecuzioni.
Le persecuzioni spagnole con Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, la conseguente cacciata dalla Spagna dove poco prima gli Ebrei erano all’apice della cultura e del potere, fu un duro colpo, non solo per il nostro popolo, ma per tutta la società civile dell’epoca.
Anche qui a Bologna, gli Ebrei tesserono i loro rapporti sociali, già dal II secolo dell’Era Volgare e nei secoli successivi, quando la città pullulava di scuole e Sinagoghe ed i Rabbini, non erano soltanto i Maestri della Comunità ma anche grandi professori delle cattedre universitarie.
Qualche settimana fa, attraverso un convegno internazionale,tenuto fra le mura di questa Università, abbiamo celebrato la figura di un grande Maestro ebreo, che oltre ad essere un filosofo, esegeta biblico studiato tuttora nelle accademie rabbiniche di tutto il mondo, fu anche docente di medicina, tanto da essere conosciuto con l’appellativo di “avir ha Rofeim” “il principe dei medici” ossia Ovadià Sforno.
Si narra di lui che fosse uno dei primi Maestri ad insegnare alla corte del Papa e ad avere rapporti di studi e cordialità con importanti personaggi del mondo ecclesiastico, tanto da essere interpellato da altri eminenti rabbini, sul comportamento da tenersi con la Chiesa ed i suoi prelati.
Era il periodo del Rinascimento, dove tutto serviva a far cultura e dove non vi erano pregiudizi nei diversi modi di professare il proprio credo religioso; tutto serviva ad aumentare il proprio bagaglio di esperienze.
Era il periodo in cui la stampa prendeva il sopravvento sui manoscritti e proprio qui a Bologna, vide la luce l’edizione Princeps della Bibbia in ebraico, con la sua vocalizzazione ed i segni musicali della massorà: i te’ammim.
Eppure soltanto dopo pochissimi anni, l’Inquisizione, nello Stato della Chiesa, tornò a togliere agli Ebrei il diritto a manifestare pubblicamente il loro credo, ma soprattutto li privò del bene a loro più prezioso – lo studio.
L’istituzione dei Ghetti ad opera di Paolo IV Carafa nel 1555, tolse loro la cultura e ogni diritto civile, segregandoli nei luoghi più angusti e mal sani delle città sotto il potere dello Stato Pontificio.
Con la Bolla Cum Nimis Absurdum, emanata appunto da Paolo IV, si negava agli ebrei ogni diritto, da quello alla partecipazione alla vita sociale, al lavoro comune, ai lavori di artigianato; era assurdo, recitava la Bolla, che i giudei macchiatisi dell’infame colpa di deicidio e quindi in grado di contagiare qualsiasi cosa, persino materiale inanimato come metalli, oro argento e materiale prezioso, potessero pretendere di vivere e lavorare insieme ai cristiani.
Fra i provvedimenti imposti dalla Bolla c’era anche  quello che agli ebrei fosse tolto il diritto allo studio e all’insegnamento.
Non molto lontano da questo luogo dove ci troviamo infatti, si diede il via ai roghi del Talmud, testo sacro per il popolo ebraico, con i conseguenti Tribunali dell’Inquisizione che perseguitavano, rabbini e dotti, calunniandoli, per giustificare il loro infame operato.
E’ noto il processo del Rabbino Ismael Chananià di Valmontone avvenuto a Bologna nel 1567, il quale ebbe il coraggio dinnanzi a quelle macchine infernali di tortura, di smentire, pretendendo di mettere a verbale le sue parole, tutto ciò che gli veniva imputato, documentandolo con tesi reali.
Raccontano i documenti che fu, forse, il processo inquisitorio peggiore avvenuto in Italia, degno dei Tribunali spagnoli, ad opera di Angelo Antonio Amati, “Commissario sopra gli Ebrei” e braccio destro del Cardinal Legato a Bologna, cattedra in quel momento scoperta, il quale perseguitò gli ebrei danneggiandoli il più possibile anche attraverso opere di censura nei testi e nei formulari di preghiere.
Vi fu però, a onor del vero, da parte della famiglia Paleotti: Gabriele, Arcivescovo della diocesi Bolognese e di suo fratello Camillo, il tentativo di difendere gli ebrei dal peso dell’Inquisizione, lottando anche per la libertà, non solo di costoro, ma anche di tutti i comuni cittadini.
Nel 1567 gli Ebrei furono definitivamente espulsi dal territorio bolognese e non fu permesso loro, di soggiornarvi se non  per brevissimo tempo.
Vi poterono tornare soltanto dopo circa tre secoli ad opera di Napoleone III, il quale attraverso l’Emancipazione permise a tutti gli oppressi ed anche agli ebrei, di essere considerati cittadini liberi a tutti gli effetti.
Gli ebrei uscirono finalmente dai Ghetti, poterono tornare nelle città da dove erano stati cacciati riprendendo la loro vita sociale, ed insediandosi in ogni parte delle città. Furono costruite le grandi Sinagoghe, simbolo e testimonianza della libertà riconquistata  e del loro ritorno al diritto di “vivere”.
Tuttavia, soltanto dopo alcuni anni, la comunità ebraica locale, tornò a piombare nuovamente nel baratro a causa di un episodio storico avvenuto ad opera della Chiesa: “Il caso Mortara.”Si tratta del rapimento da parte delle guardie papaline di un bambino ebreo, Edgardo Mortara, che a casa con la sua famiglia in Via delle Lame, fu rapito e portato a Roma nella “casa dei catecumeni” e battezzato. A lui fu tolto il diritto di rivedere la propria famiglia ed ai propri genitori di rivedere il loro figlio.
Fu un caso che commosse tutti, non soltanto l’Italia, ma tutto il mondo democratico di allora, che alzò la propria voce per consentire ai genitori di riavere il proprio figlio.
A nulla servirono le  manifestazioni di solidarietà; il bambino non rivide mai più la sua famiglia.
Questo luogo, Sacro Tempio consacrato alla Cultura, l’Università di Bologna, più antica fra quelle Europee, vuole essere il simbolo, come lo fu nei tempi lontani, il Tempio di Gerusalemme, di raccolta di tutte le Genti, senza alcuna distinzione di fede, di lingua, di colore   di “razza”.Simbolo, perché in alcune delle sue cattedre furono adottati i testi di Maimonide(grande Maestro, medico, filosofo e astronomo ebreo della Spagna medioevale prima della Cacciata) e le cattedre furono rette anche da esimi docenti di religione ebraica che contribuirono a portare in alto il nome della cultura internazionale.
Molti alunni ebrei, hanno poi glorificato nel mondo, gli insegnamenti ricevuti in questo Ateneo divenendo a loro volta grandi scienziati.
Purtroppo, a causa delle infami leggi razziali del 1938, moltissimi docenti e studenti furono cacciati da questo e da tutti gli Atenei italiani, furono privati del diritto all’insegnamento, allo studio ed alla cultura ma soprattutto del diritto alla libertà di pensiero.
Professori famosi, come Federico Enriques, Beppo Levi, Beniamino Segre, Maurizio Pincherle al quale Bologna deve la Clinica pediatrica Gozzadini ( soltanto per citarne alcuni) furono cacciati dalle loro cattedre e dall’Ateneo di Bologna come si usa fare con i peggiori impostori e furfanti; fra loro anche Leone Maurizio Padoa – fondatore della Facoltà di chimica industriale fu trucidato dai nazisti durante la loro fuga.
Soltanto alcuni di essi furono reintegrati dopo la guerra.
Per dovere di storia desidero ricordare anche i figli della nostra Comunità morti nelle camere a gas dei lager nazisti ed in particolare il Rabbino capo di Bologna che per quarant’ anni ricoprì la cattedra rabbinica, Alberto Orvieto che come un buon padre, andò insieme ai membri della comunità a morire, in nome della libertà e sua moglie; e anche il più giovane partigiano d’ Italia Franco Cesana.
Oggi, grazie al cielo, viviamo un’epoca diversa, i rapporti fra la Chiesa e le Comunità ebraiche italiane, sono più distesi, almeno quelli ufficiali.
Circa sessant’ anni fa Jules Isaac, fondando la prima associazione di amicizia Ebraico Cristiana
dedicò tutto il resto della sua vita, dopo essere miracolosamente tornato dai campi di sterminio,  al tentativo di riappacificazione fra ebrei e cristiani, non prima però di aver perso, trucidate nei campi di sterminio nazisti moglie e figlia.
Papa Giovanni XXIII suo carissimo amico,con il Concilio Vaticano II, abolì l’accusa di deicidio con l’Enciclica Nostra Aetate.
Lo storico ed indimenticabile incontro tra Giovanni Paolo II e l’allora Rabbino Capo di Roma Elio Toaff (mio stimato ed amato Maestro) fecero del tutto per aprire una porta ad un dialogo, chiaro ed irreversibile, non solo fra uomini di religione cattolica ed ebraica, ma fra tutte le religioni monoteistiche che vogliono collaborare e vivere in un mondo di rispetto e serenità, nel segno della civiltà, della pace comune.
Le grandi spallate che Giovanni Paolo II diede a tutte quelle che erano le prese di posizione della Chiesa, furono per la società moderna un ulteriore balzo in avanti nella difficile impresa del dialogo fra religioni. In nome  di tutta la Chiesa domandò perdono per il male che  nel corso dei secoli era stato fatto agli ebrei. Lo fece a Roma nella Via Crucis del 1998: “non gli ebrei che noi abbiamo per duemila anni crocifisso, ma noi siamo responsabili della morte di Gesù per i nostri peccati”.
E a Gerusalemme davanti al Muro Occidentale che ricorda il Tempio  distrutto prima dai Babilonesi e poi dai Romani, che era il punto di convergenza di tutti i popoli monoteisti, dove anche Gesù, secondo ciò che viene raccontato dai vostri testi sacri , si recava per offrire sacrifici all’unico Dio.
Fu il risultato di un lavoro lungo e faticoso da parte di un uomo che tanto sperava in un giorno in cui, finalmente tutti gli uomini, di ogni credo religioso si incontrassero ed iniziassero a dialogare per il bene di tutta l’Umanità.
Un lavoro che ancora oggi ha lasciato un segno indelebile, ma ancora molto altro bisogna fare per raggiungere  questo obbiettivo.
Noi ebrei non siamo un popolo di vendicatori, né dobbiamo serbare rancore; dobbiamo però ricordare per mantenere vivo ciò che fu per far sì che non possa mai più ripetersi.
Se per noi il simbolo della persecuzione nella storia fu l’Egitto, di cui ancora oggi celebriamo la liberazione da esso e dalla sua schiavitù, la Torà ci comanda, nonostante ciò nel Deuteronomio:
“ non aborrire l’egiziano poiché fosti ospite nella sua terra”.
Persino quindi nei confronti dell’Egitto che è stato il simbolo della sofferenza del nostro popolo, la Torà ci comanda di riservare una forma di rispetto, poiché fummo ospitati nella sua terra.
Il ricordo quindi è fondamentale alla storia, il rancore è deleterio!
C’è ancora da parte di qualcuno, sia nel mondo universitario che in genere,
un atteggiamento ostile nei riguardi di Israele, a cui noi ebrei siamo particolarmente legati.
Vengono di tanto in tanto boicottati docenti di quel Paese che insegnano presso questa ed altre Università, ed in segno di una pace parziale ( a senso unico, come è stata definita da qualche esponente del mondo ebraico), si fanno atti vili e poco civili nei confronti di quello Stato che vuole, difendersi dai continui attacchi suicidi e di guerriglia da parte dei suoi vicini, che è l’unico stato del Medio Oriente in cui Ebrei, Cristiani e Musulmani, hanno parità di diritti religiosi;  che vuole anche partecipare e collaborare ad ogni sorta di opera nel campo scientifico, della ricerca in genere e del progresso, nel bene di tutta la società moderna.
Oggi, noi due, Lei ed io, rappresentanti di due mondi con idee teologiche completamente diverse, attraverso questo incontro abbiamo un compito piuttosto oneroso:
siamo qui a rafforzare un dialogo fra uomini che vogliono collaborare, invitando quanti altri, nel bene della democrazia, del diritto allo studio, alla cultura ed all’espressione religiosa di ogni fede civile e democratica, vogliono partecipare ad un dialogo, con in comune almeno un solo scopo, il bene della società moderna e dei principi di tolleranza.
E’ un invito questo a stringersi per un serio ed onesto lavoro, per contribuire, insieme alle autorità, cittadine civili e democratiche e far in modo che tutto ciò che fu, non si ripeta mai più, non soltanto a parole ma con fatti veri, e nel segno della reciproca stima e rispetto.

Nel rispetto dei diritti degli studenti affinché si rendano conto della sacralità dello studio e della stima per il diverso;
Nel rispetto degli enti pubblici affinché lavorino per garantire a coloro che sono diversi da noi, per lingua pensiero religioso e colore della pelle, senza alcuna discriminazione, una vita degna dell’Essere umano creato ad immagine e somiglianza divina.
E soprattutto nel rispetto della sacralità della vita.
Soltanto in questo modo, potremo finalmente gridare ai quattro angoli della terra di aver fatto il nostro dovere, mettendo in pratica il pensiero e la volontà di quel Re di Israele che componendo i Salmi, voleva che l’uomo mettesse in pratica tutte le sue nobili capacità fra cui, quelle di comprendere le necessità di ogni altro uomo e attraverso il suo operato, si elevasse verso la
volontà divina, lodandola per il bene che ci ha concesso: – la vita, l’intelligenza e la conoscenza.
Soltanto così potremo finalmente pronunciare con coscienza pulita le
parole con cui il salmo in questione si conclude:
“ogni anima lodi il Signore
Halelu-jah.

Rav Alberto Sermoneta

Il Presidente della Comunità ebraica di Bologna ha rivolto agli intervenuti questo intervento:

Questa sera rinnoviamo i segni dell’amicizia tra ebrei e cristiani. Per noi ebrei questa è un’occasione lieta e allo stesso tempo delicata. Credo che nelle Comunità Ebraiche in genere vi sia un gran desiderio di ritrovare affratellamento con il pensiero cristiano, e allo stesso tempo timore per tanti eventi passati, e desiderio di ottenere un pieno chiarimento sulla storia. Queste cose vanno insieme nella tradizione ebraica, perché il livello più alto di amicizia è quello in cui ci si può criticare l’un l’altro con franchezza, e l’uomo cambia il corso della sua storia solo dopo aver ben analizzato le strade che non vuole più percorrere. Nella tradizione cristiana si è sviluppato nella storia un filone di pensiero antiebraico, e questo ha offuscato la continua presenza nell’etica e nella liturgia cristiana di forti tracce della radice ebraica e limitato lo scambio d’idee tra due tradizioni dalle radici comuni.
I rapporti tra Ebraismo e Chiesa Cattolica hanno avuto un’evoluzione straordinaria negli ultimi 50 anni, e ci consentono oggi di guardare con speranza al futuro. L’evoluzione del dialogo è però poco conosciuta, se non a livello elitario, e occasioni come questa aiutano sia noi ebrei, sia i nostri fratelli cattolici ad avvicinarsi di più l’uno all’altro. Vi sono questioni rispetto alle quali il dialogo tra le due fedi ha portato a chiarimenti definitivi, e tra queste è bene ricordare l’infondatezza teologica dell’accusa di deicidio, l’irrevocabilità dell’elezione di Israele, il fatto che Gesù e Maria furono figli di Israele, la cessazione dell’insegnamento del disprezzo verso gli ebrei ed il riconoscimento del ruolo che questo disprezzo, insegnato per secoli e ora considerato un errore teologico, ha avuto nelle persecuzioni che hanno colpito per secoli gli ebrei, e che sono atrocemente culminate nella Shoah.
Questo processo è durato più di un secolo nella Chiesa Cattolica, ed ha affiancato il processo di confronto con la modernità e con la democrazia, riflessioni teologiche profonde, e la necessaria reazione agli orrori della Shoah. Credo che non potremmo godere la gioia di questo momento se non vi fosse stato un libro, scritto da uno dei fondatori dell’amicizia ebraico – cristiana, Jules Isaac. Questo libro, intitolato ‘Gesù e Israele’, fu pubblicato in Francia nel 1948 ed uscì per la prima volta in Italia nel 1976. Esso aiuta a capire le origine dell’insegnamento del disprezzo e a riscoprire le numerosi fonti evangeliche che invece spingono nella direzione opposta. Fu letto da Papa Giovanni XXIII e credo che per chi si vuole occupare con animo sincero di dialogo, e per chi vuole interrogarsi sulla Shoah, e su quanto l’antisemitismo sia anticristiano, eppure si sia nutrito abbondantemente nella tradizione cristiana, insieme ad altri importanti testi dovrebbe ancora oggi rileggere ‘Gesù e Israele’, che tra l’altro ebbe un contributo Bolognese alla sua traduzione, da parte di Ebe Finzi, mamma di Mario Finzi, giovanissimo partigiano morto ad Auschwitz, cui è dedicata la via in cui si trova il tempio.
Il dialogo da frutti, sia in ambito cattolico, dove ai molti gesti dei Papi che si sono succeduti da Giovanni XXIII a Benedetto XVI, si è aggiunto un’importante revisione del Catechismo e della liturgia, sia in ambito ebraico dove paura e diffidenza lasciano via via spazio a collaborazione e scambio di riflessioni su temi etici e umanitari.
Questa serata è un passo di alto valore simbolico lungo questo cammino, una occasione di condividere la lettura di salmi, e di scambiarsi pensieri franchi e animati dal desiderio di reciproca comprensione.

Il cardinale Caffarra ha risposto con queste parole:

“Sono lieto di condividere con voi, che per la misericordia divina mi è stato dato di chiamarvi fratelli, questo momento di meditazione e di lode. Mi è stato chiesto di offrirvi qualche riflessione sul Salmo 1: il Salmo che costituisce come il pronao di tutto il Salterio.

Come sempre, la Parola di Dio dettaci in questo salmo ci colpisce a morte quanto al nostro comune modo di pensare. Abituati come siamo a vivere in una cultura che aborre le separazioni di fondo fra vero e falso, bene e male, giusto ed ingiusto; abituati come siamo a vedere la realtà colorata tutta di grigio anziché di bianco e nero, il Salmo ci disturba profondamente perché contrappone senza nessuna “via di mezzo” due modi di camminare, di esistere. È la via del giusto e la via dell’empio. La prima conduce alla salvezza, la seconda alla rovina totale.
Due potrebbero essere le chiavi di lettura di questo salmo: quella soggettiva, e quella oggettiva. La dimensione soggettiva del testo biblico mette in luce che la contrapposizione fra le due vie, fra i due modi di esistere, e dunque di esercitare la propria libertà accade nel cuore di ogni persona. La dimensione oggettiva mette in luce che i due modi di essere prendono corpo anche come contenuto della cultura e della civiltà, come sistema filosofico, come ideologia. Preferisco usare la prima chiave di lettura: ciascuno ha in sé e l’uomo giusto e l’uomo empio di cui parla il Salmo.
Cominciamo dalla descrizione dell’uomo giusto. Che cosa lo definisce, quale è il “cuore” di tutta la sua esperienza umana? «si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte» La legge del Signore è la Parola detta da JHWH ad Israele, e condensata nelle Scritture; è la divina istruzione con cui il Signore guida ed educa il suo popolo.
È nei confronti di questa realtà che il modo di vivere che è proprio del giusto viene definito. Come si pone il giusto? È detto con due verbi stupendi: «si compiace»; «medita». Il primo denota “la preferenza del cuore, il diletto delle relazioni interpersonali affettive; così si parla del «compiacersi» dello sposo per la sposa” [F. Rossi de Gasperis]. Il secondo denota una attività che nasce dal desiderio di comprendere, assimilare, fare propria. La via del giusto è la via di colui che esercita la sua libertà lasciandosi ispirare, governare, condurre dalla divina Torah.
Questo rapporto scende ad una tale profondità che il giusto non solo «non siede in compagnia degli stolti», cioè non dimora e non sta abitualmente nella loro mentalità; non solo «non indugia nella via dei peccatori», non si sofferma neanche per un attimo, ma «non cammina con gli empi», cioè non fa neppure un passo con loro.
Quando nel nostro cuore prevale l’uomo empio, lo stolto? Le Sante Scritture danno una risposta inequivocabile: quando riteniamo che Dio è un’ipotesi inutile. Lo stolto è colui che dice: “Dio non esiste o se esiste, ne posso fare a meno”.
La via dell’empio è la via di chi esclude radicalmente la presenza e l’azione di Dio nel mondo e nella sua vita. Da ciò deriva che la logica di questa vita è quella di cercare una consistenza nel possesso, nel dominio. Mera apparenza! «come pula che il vento disperde».
«Non reggeranno gli empi nel giudizio». È la risposta alla domanda più drammatica che sorge in chi ha meditato e pregato questo Salmo.
Esso ci ha messo di fronte due modi di vivere opposti. Le Sacre Scritture non fanno mistero sul fatto che nella storia l’empietà risulta vincente: dunque «invano ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani» [Sal 73(72),13].
«Non reggeranno gli empi nel giudizio »: la risposta è il giudizio di Dio, che ristabilisce definitivamente il diritto, che impedisce all’ingiustizia di dire l’ultima parola.
L’evento che stiamo vivendo ci rende, alla fine, consapevoli che la grande responsabilità che sia la comunità cristiana sia la comunità ebraica hanno in comune verso l’uomo di oggi è prima di tutto la seguente: liberarlo da quella «menzogna ontologica» da cui è quotidianamente insidiato, secondo la quale l’uomo è principio di se stesso e vive per se stesso. È testimoniare la presenza di Dio nella vita dell’uomo”.