La cultura dell’ebraismo italiano: un mito?
È uno strano fenomeno l’ebraismo italiano: fuori d’Italia, a stento se ne conosce l’esistenza e, in Italia, lo si pensa come una realtà di vaste proporzioni. Se non sorprende più di tanto che gli effetti di una cultura diffidente nei confronti del diverso crei la suggestione amplificata di un milione di ebrei italiani, è per contro paradossale che sia necessario dire agli ebrei del mondo che è esistito ed esiste un ebraismo italiano, con la sua storia, le sue tradizioni e la sua cultura.
La geografia dell’ebraismo italiano è semplice: una settantina di sinagoghe (in gran parte abbandonate) sparse da sud a nord, tracce di antica vita ebraica in almeno 200 città e paesi, ma, in effetti, oggi, solo 21 comunità ebraiche sparse per la penisola, per un totale di circa 25.000 persone.
La storia degli ebrei in Italia non è stata facile, anche se, prima della Shoah, non si sono mai avute tragedie nazionali, come è accaduto invece in Inghilterra, Germania, Polonia, Russia. Mai espulsioni dalle dimensioni apocalittiche, come quella del 1290 dall’Inghilterra, del 1492 dalla Spagna e del 1497 dal Portogallo.
Medioevo e Rinascimento hanno favorito lo sviluppo di una cultura che ha dato germogli per almeno due secoli, e fino al Settecento. La scuola rabbinica di Trani, nel lontano Medioevo, era nota in tutta Europa; al rabbinato di Venezia, nel ’500, faceva ricorso Enrico VIII d’Inghilterra alla ricerca di puntelli biblico-teologici per il suo divorzio dalla cattolica Caterina d’Aragona.
Una prima domanda, spontanea, è dove sia finito quell’ebraismo. Una seconda, e in senso contrario, è se non si tratti solo di un problema di percentuali. Gli ebrei in Italia, infatti, sono sempre stati fra i 30 e i 50.000. Se l’apporto storico della cultura ebraica in Italia lo si rapportasse agli attuali 500.000 ebrei di Francia o di Inghilterra, per non dire ai 6.500.000 ebrei d’America, il giudizio sul contributo culturale dell’ebraismo italiano non sarebbe affatto negativo.
L’ebraismo italiano ha in effetti una storia illustre. Nella Sicilia del VII secolo gli ebrei vissero un’epoca d’oro; poi la cacciata dalla Spagna, determinò la loro espulsione dall’isola, che faceva allora parte del regno d’Aragona. Con la loro cacciata, dopo 15 secoli di presenza ebraica, andò in crisi per sempre l’industria della tessitura in Sicilia.
Ma gli ebrei erano prosperati in tutta l’Italia meridionale. E non solo nei commerci. Le Puglie e la Calabria fecero da ponte per la conoscenza del Talmud in Europa. Bari, Venosa, Trani, Otranto furono importanti centri di studio, vi operarono autorità talmudiche e vi si produsse poesia religiosa. Famoso il detto: “Ki miBari tetzé Torah udvar haShem miOtranto”, ‘poiché da Bari uscirà la Torah e la parola del Signore da Otranto’.
La rinascita culturale prese la via del nord, da Roma alla Toscana; e fu da Lucca che il Talmud fu poi portato oltralpe, verso la valle del Reno. A portarlo fu la famiglia dei Kalonymos, che attorno al 1000 costituì fra Magonza, Worms e Spira importanti centri di studio e la scuola mistica dei Hasside’ Ashkenaz.
A Roma, nel XIV secolo, operò una scuola talmudica, ma anche una corrente culturale laica, ben rappresentate dal filosofo provenzale Kalonymos ben Kalonymos e dal poeta Immanuel Romano.
Nel secolo successivo, nasce a Bertinoro uno degli insostituibili commentatori della Mishnah, Ovadiah da Bertinoro (il Bartenura del mondo ashkenazita). Circa nello stesso arco di tempo, opera, fra Venezia, Padova e Roma, uno dei grammatici fondamentali della lingua ebraica, Elia Levita. E inizia poi la grande epoca della stampa ebraica, che ha in Italia centri di rinomanza europea: Venezia, Mantova, Ferrara, Bologna, Reggio Calabria, Napoli, Roma, Brescia, Fano, Pesaro, Ortona, Rimini, Riva di Trento, Piove di Sacco, Soncino. A Venezia, nel 1520, viene stampata la prima edizione del Talmud, con un’impaginazione che è tuttora il modello di ogni altra sua edizione.
Qualcosa dovrebbero dire anche i nomi di Judah Mintz, fondatore della Scuola Talmudica di Padova, o di Ovadiah Sforno, filosofo del ’500, commentatore della Torah, medico e guida della scuola rabbinica di Bologna; ma Azariah dei Rossi di Ferrara-Bologna-Mantova, Leon Modena di Venezia, Leone de’ Sommi e Abraham Portaleone di Mantova, sono tutti nomi di studiosi che hanno lasciato un segno nella cultura ebraica e hanno interagito con la cultura italiana. Dei Rossi, Modena e Portaleone sono considerati anticipatori della Scienza del Giudaismo, per il loro interesse nella ricerca scientifica applicata alla storia ebraica, alla letteratura e alla religione. Ma Leon Modena, a Venezia, si occupò anche di musica polifonica, come, con risultati più duraturi, Salamone Rossi a Mantova. Ma ad attorniare queste personalità era un intero milieu culturale. Fra ’600 e ’700 anche la Kabbalah ebbe punte di diamante in Menachem Azariah da Fano e in Moshé Hayyim Luzzatto (RaMHaL) di Padova.
Con la fine del ’700, si aprono i ghetti e arriva la crisi: la cultura ebraica tende a laicizzarsi, e inizia un processo di disidentificazione. Eppure l’’800 dà ancora un Itzchak Shmuel Reggio, rabbino di Gorizia, e Shmuel David Luzzatto, il famoso SHaDaL, a Padova; entrambi studiosi e commentatori della Torah. E poi Eliah Benamozegh, professore del Collegio Rabbinico di Livorno, con i suoi studi e la sua tensione kabbalistica.
L’apertura delle porte del ghetto intacca però l’interesse degli ebrei verso la propria cultura. L’ebraismo religioso è visto come prodotto dell’oscurantismo e della seclusione; e l’illuminismo, con il suo spirito laico e antireligioso, sembra invece aprire le porte della libertà e dell’uguaglianza. Anche se uguaglianza, sulla scorta di Voltaire, significa in effetti rinuncia alla specificità e all’identità.
Gli ebrei, per troppo tempo trattati come una minoranza inferiore, sono disposti, a questo punto, a riconoscersi tutt’al più in un’élite. Magari in una ristretta élite economico-sociale. E si creano così ulteriori divisioni, fra il proletariato ebraico che rimane all’interno del Ghetto e chi invece dal Ghetto ha la possibilità economica di uscire. Fuori dal ghetto, tuttavia, gli ebrei dell’emancipazione non hanno più interesse a produrre e a rappresentare cultura ebraica.
Nell’’800 e nel ’900 il processo continua. A dare la svolta alla riassunzione deliberata della propria identità da parte dell’ebraismo è, in tutta Europa, la Shoah e le sue conseguenze disastrose. Vi è naturalmente chi abbandona, ma l’ebraismo in generale, anche quello italiano, apre gli occhi e vede cadere il velo dell’illusione. A riportare all’ebraismo un po’ di coscienza identitaria sarà, poi, la fondazione dello Stato d’Israele.
Da allora è stato fatto uno sforzo notevole nel recupero dell’identità e dei valori ebraici. E tuttavia, soprattutto in Italia, non è stato più recuperato il senso della cultura e la capacità di produrre cultura. Ancora oggi l’ebraismo si ritrae timido dal confronto con la cultura altrui. Si è persa consapevolezza e capacità di essere. Per parafrasare una famosa leggenda hassidica, non conosciamo più la strada nel bosco che porta al luogo in cui eravamo soliti accendere il fuoco.
Così, spesso, l’ebraismo italiano preferisce prendere a modello altri ebraismi e altri Maestri. E forse non c’è nulla di strano nel fatto che, come ebreo del compromesso, ormai privo di una sua identità forte, l’ebreo italiano simpatizzi d’istinto con le espressioni culturali ebraiche più diverse: laiche o religiose, sefardite o ashkenazite, razionali o mistiche, europee, americane o israeliane. Un po’ alla Zelig, alla ricerca della perduta identità. Ma, in questa ricerca che tutto assorbe, è come se l’ebreo italiano si ritraesse da sé e dal suo passato per un senso di inadeguatezza, o per un deliberato misconoscimento di sé.
Medioevo, Rinascimento e Illuminismo sono ormai lontani; l’’800, un po’ ammuffito, sa di avvicinamento alla riforma: la storia della Scienza del Giudaismo, l’abbandono dell’ortodossia, la corsa all’assimilazione e la fuga da un’identità forte. Assieme all’acqua sporca è stato gettato dalla finestra anche il bambino.
Non può sorprendere, allora, che, per tutto il ’900, per i rari scrittori ebrei di un qualche valore, l’ebraismo sia solo un’origine distante, a volte solo un ricordo d’infanzia, magari ricco di folcloriche emozioni. È così per Svevo, che rigetta persino il proprio nome originario, Ettore Schmitz; è così per Saba, tipico esempio di ebraica antipatia di sé. Per Bassani e per la Ginzburg l’ebraicità è poco più del locus depositario dei ricordi famigliari. Al più una memoria storica. C’è poco spazio per una prospettiva di ebraismo futuro. Carlo Levi e Moravia, poi, riservano alle proprie origini ebraiche un sentimento di serena indifferenza. Primo Levi merita un luogo e un rispetto tutti suoi, ma è difficile non ammettere che la sua scrittura ebraica è determinata dalla tragedia della Shoah e tutta ripiegata su di essa.
Lasciando quindi a parte il caso Primo Levi, si tratta di una cultura che ha ben poco di ebraico se non l’origine del suo produttore. Scrittori che si potrebbero definire ebrei da un punto di vista poco più che ‘biologico’. Una cultura che non assume l’ebraismo neppure come struttura della coscienza o della mente, come almeno si potrebbe dire di Kafka o di Harold Pinter, ma, tutt’al più, come un modello di vita e di pensiero da cui distaccarsi e da osservare a distanza. L’assimilazione è così, a un tempo, processo di liberazione dalla discriminazione e perdita/abbandono dell’identità culturale.
Se si prescinde dalla scrittura della Shoah, l’unico segno che rimarrà della cultura ebraica italiana del ’900 sarà probabilmente la produzione artistica di Emanuele Luzzati, fortemente caratterizzata dalla sua esperienza ebraica e da un valore artistico universalmente riconosciuto. Il resto sarà storia e rivisitazione di tragedie famigliari.
Nell’’800, in epoca di emancipazione, quando il fenomeno religioso veniva considerato solo superstizione e subiva la sfida dell’ebraismo riformato, tutto teso a modernizzare le pratiche religiose, Benamozegh si impegnava a conciliare tradizione e modernità; senza rifiutare la scienza moderna, egli prendeva posizione a favore della Kabbalah. E veniva contestato da Shmuel David Luzzatto, che – anch’egli a difesa della tradizione e, insieme, della scienza moderna – alla Kabbalah invece si opponeva. Benamozegh cercava di indicare la strada di un ebraismo integrato, che sapesse conciliare Torah, Kabbalah, umanesimo e scienza.
Ma Benamozegh è talora considerato troppo imbevuto di cultura mistico-speculativa, e non se ne vede la posizione moderna, il suo impegno a superare la crisi riconoscendola, anziché negandola. Anche SHaDaL appare troppo vicino alla Scienza del Giudaismo, vicina a sua volta alla riforma, e si rischia spesso di non cogliere la forte difesa che egli fa dell’ebraismo tradizionale. SHaDaL indica chiaramente la strada al tradizionalismo moderno, al tradizionalismo illuminato. Che non è la riforma. L’ebraismo moderno non ha saputo continuare e sviluppare il percorso indicato da Benamozegh e da SHaDaL; poi, il fascino della modernità, da un lato, e la Shoah, dall’altro, hanno fatto il resto.
In modo analogo, nel ’900, Umberto Cassuto, rabbino, professore universitario, studioso solidissimo e di fama internazionale, viene visto dall’ortodossia ebraica per lo più come uno studioso ‘laico’ della Torah. Troppo filologo, troppo linguista. Cassuto è forse troppo erudito, e il suo approccio è troppo scientifico e troppo moderno, troppo poco omiletico, forse troppo poco mistico. Troppo ‘professore’, insomma. I suoi commenti a Genesi e a Esodo, coltissimi, li si trova in ebraico e in inglese. Non in italiano. Anche la sua difesa dell’unità strutturale della Torah contro le tesi dell’ipotesi documentaria (che presenta la Torah come un collage di fonti) la si trova solo in inglese e la si può acquistare su internet. In italiano non esiste.
È come se la cultura ebraica italiana non volesse riconoscere i suoi stessi Maestri.
In New Studies in Bereshit (Nuovi studi su Genesi), Nehama Leibowitz, eminente studiosa, cita più volte fra le sue fonti Benamozegh, e Sforno e Shmuel David Luzzatto, e cita moltissimo anche Cassuto. E cita persino il goriziano Yitzchak Shmuel Reggio.
Ma il commento alla Torah di SHaDaL si trova facilmente in ebraico e in inglese, non in italiano. Il commento alla Torah di Reggio lo si trova solo in ebraico, magari presso una libreria antiquaria.
A considerare la produzione culturale degli ebrei in Italia, ci si può ben chiedere come mai nessuno abbia mai pensato di scrivere una storia della loro letteratura. Cassuto stesso, nel 1938, scrisse un compendio, non molto più che una lista di nomi brevemente commentati, ma una lista davvero sorprendente per estensione. Un apporto culturale e letterario, laico e religioso che è solo una goccia nel mare della letteratura mondiale. Ma ciò che si perde di vista, in questo modo, oltre al contesto, è il fatto che l’ebraismo italiano ha rappresentato, e ancora rappresenta sul piano storico-sociale, un’eccezione culturale ed esistenziale, come compromesso di due anime autonome e conviventi, quella italiana e quella ebraica. Già nel X secolo, il medico e studioso di mistica Shabbetai Donnolo scriveva, ad esempio, un trattato di farmacologia e un commento all’esoterico Sefer Yetzirah (Il libro della creazione/formazione).
Questa visione conciliatoria sembra essere stata una peculiarità tutta italiana, spesso applicata alla prassi religiosa, materia in cui gli ebrei italiani hanno sempre cercato una via media: un’anima religiosa e una prassi, a torto o a ragione, compromissoria, magari accompagnata da un sano senso di colpa nei riguardi di un’ortodossia piegata alle convenienze di un quotidiano facilitato. Un compromesso che può anche essere letto come ipocrisia, ma è anche la strada che ha evitato finora all’ebraismo italiano di cedere alla tentazione della Riforma. È vero, del resto, che l’ebraismo italiano non ha mai messo in discussione la legge ebraica, l’halakhah, non ha mai cercato di adattarla per renderla più semplice e praticabile. Si accetta la presenza della strada indicata dalla tradizione ortodossa e vi ci si attiene in modo libero, senza produrre scontri culturali e sociali; magari, invece, portandosi dentro il senso della propria inadeguatezza. Talora si è portati a pensare che una scelta di campo più coraggiosa potrebbe rendere più coerente la vita. Ma l’ebraismo italiano sembra incapace di abbandonare il suo legame secolare con la tradizione, malgrado le spinte della modernità. La particolarità non sempre riconosciuta dell’ebraismo italiano è la sua incapacità di scegliere o, se si vuole, la sua volontà di rimanere nel mezzo, pericolosamente in bilico fra tradizione e assimilazione, come a dire: fra l’essere stato e il non essere ancora.
Ma, nell’ebraismo, cultura e prassi sembrano due realtà non facilmente separabili, e quando si rompe il legame fra di loro va in crisi il senso stesso di un’identità millenaria, e il suo fascino. È difficile pensare che ci si possa riappropriare di un’identità culturale senza un recupero della propria storia, una storia che non sia soltanto un memoriale delle persecuzioni subite. Nella cultura ebraica si è prodotta una discontinuità. L’emancipazione dell’’800 ha costituito una rottura e una cancellazione per chi ha concepito un’identità ebraica liberata dal fardello della prassi e dello studio; e la Shoah, quando non ha portato alla fuga per una salvezza al di fuori dell’ebraismo, ha indotto a concentrarsi sulla storia della persecuzione. Ciò che sembra venuta meno è la cultura del libro in quanto costruzione del commento, e del commento in quanto impegno dialettico. È questa caduta della cultura dialettica che ha forse spezzato la continuità con il passato. L’ebraismo italiano, sembra ora vivere di cultura secondaria, dopo aver rinunciato alla paradossale primarietà del commento. Ma la cultura ebraica trova il suo senso proprio nel segno arduo dell’inclusività e nella dialettica intertestuale, che trovano il loro nutrimento nella cultura della prassi. È una cultura che schiva, per lunga tradizione, le facili risposte pacificanti e le violenze della verità assoluta.
Il minuto ebraismo italiano ha forse bisogno di ricostituire l’insieme. Strumenti per questa operazione di rilancio dell’identità culturale non gliene mancano, visto che ha a sua disposizione un Collegio rabbinico, un corso di laurea in studi ebraici, una rivista culturale, e centri di cultura in ciascuna delle sue 21 comunità. E Musei, che, oltre che conferire giusta permanenza alla memoria del passato, possono farsi essi stessi centri di stimolo culturale, di studio e di ricerca. Si tratta ora di dare un forte impulso nella giusta direzione.
Dario Calimani, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Ferrara, 21 aprile 2010