Qui Milano – ‘Il venditore di sigari’ di Amos Kamil
Una pièce teatrale da non perdere, “Il venditore di sigari” scritta Amos Kamil, autore pluripremiato di cinema e teatro, nato in Israele ma cresciuto a New York, dove l’opera è stata rappresentata con molto successo off-Broadway –rimarrà in scena fino al 30 maggio al Teatro Litta di Milano.
Da non perdere perché affronta con ritmo serrato, senza mai un attimo di noia, temi fondamentali. Che cosa vuol dire essere ebreo, e che cosa è, o dovrebbe essere, Israele; che significato ha la tradizione religiosa nell’identità individuale e politica; l’impossibilità di distinguere il Bene dal Male, e la natura ontologica del Male; Nietsche, Spinoza e Cartesio e il rapporto tra pensiero laico e religione. Ma soprattutto, che prezzo si paga per sopravvivere, e come essere sopravvissuto non basti a dare la licenza per giudicare gli altri.
La storia, di cui raccontiamo solo l’incipit, perché si snoda come un giallo, piena di colpi di scena, è ambientata a Berlino, in un negozio di sigari che apparteneva a un ebreo e durante la guerra è stato requisito dai nazisti.
Una storia che parte da una situazione reale ispirata dal nonno dell’autore. Scappato in tempo dalla Germania, era tornato a Berlino, perché gli mancavano cinque anni per poter ricevere la pensione e per quei cinque anni, tutte le mattine alle 6 e mezzo, era andato nella tabaccheria gestita da un tedesco, ma nel ghetto ebraico, per comprare un sigaro. Quello più economico, come segno male augurante per il venditore. Ma, diversamente dal protagonista del libro, non gli aveva mai parlato.
Doktor Reiter, il protagonista della pièce, ex professore di fisica (l’attore Gaetano Callegaro, che sbandiera ha la spocchia di chi si crede nel giusto) parla invece moltissimo, e perseguita verbalmente il nuovo proprietario della tabacchieria (il bravissimo Paolo Cosenza) che pazientemente sopporta angherie e insulti. Finché…
“Non puoi giudicare una persona se non conosci la sua vita, se non cammini per un chilometro nelle sue stesse scarpe” sostiene l’autore. Non un chilometro, ma un’ora e mezzo di percorso teatrale nella vita dei due protagonisti, per scoprire che “se conosci veramente il tuo nemico puoi scoprire la sua umanità e capire che se fossi al suo posto forse ti comporteresti come lui. Sopravvivere non è una colpa” è la conclusione di Amos Kamil, passando per Genesi e Talmud, scienza e filosofia, recriminazioni e sensi di colpa.
“Nascere tedesco nel 1920 significava essere condannato a diventare un carnefice “spiega il regista Alberto Oliva, che si è battuto per un anno e mezzo per riuscire a fare pubblicare e poi mettere in scena il testo. “Nascere ebreo nello stesso anno era la condanna a diventare una vittima. In entrambi i casi, la ribellione a questo destino poteva costare molto cara. A quali compromessi un essere umano, da solo, è disposto a scendere quando si trova sull’orlo dell’abisso?”
Lo spettacolo, partendo dalla questione ebraica in un monento (il 1947) cruciale per la sua evoluzione, alle soglie della nascita di Israele, parla a tutti, ebrei e non ebrei , perché tutti prima o poi siamo chiamati a fare i conti con la nostra identità e a scegliere i tempi e i modi del nostro impegno –o non impegno- sociale.
Sala piena, lunghi applausi da un pubblico giovane e in maggioranza non ebraico: il tema tocca corde universali in una realtà, come quella odierna, in cui la definizione identitaria è così problematica e il confine tra bene e Male così labile.
Viviana Kasam