L’ortodossia italiana

Ma davvero essere ortodossi significa essere rigidi e antiquati? Avere certezze assolute? Rimanere ciechi di fronte ai mutamenti del mondo? Sordi alla cultura circostante? Immobili e fermi – quasi medievali insomma? Definizioni di questo genere sono emerse negli ultimi giorni, in modo neppure molto larvato. Agli esordi dell’emancipazione l’ebraismo europeo ha conosciuto la divisione della “riforma” che ha trovato terreno fertile nella Germania della Haskalà. E molto illuminista è l’atteggiamento di chi vuole riformare. Perché si reputa soggetto autonomo e sovrano che, ricorrendo ai lumi della ragione, può passare al vaglio la tradizione. Ma perché mai quella regola antiquata? E quella mitzvà così inspiegabile? E perché non cambiare qui e là i testi, anche quelli millenari? Non sorprende che il movimento abbia attecchito nel paese della Riforma per eccellenza, la Germania, e da lì sia poi sbarcato negli Stati Uniti. L’umanesimo italiano, che si è protratto fino oltre il Settecento – basti pensare a Vico – e ha avuto tra i suoi esponenti anche rabbini illustri, fino a Elia Benamozegh, ha costituito in Italia un argine. Perché ha insegnato non solo a diffidare della ragione (che è del singolo e si pretende universale), ma a interrogare la tradizione nella consapevolezza che già la domanda innova. Il che ebraicamente si traduce in quella temimùth del “faremo” che precede l’“ascolteremo”. Diverso è dunque l’atteggiamento verso la Legge. Compiere una mitzvà può dischiudere una dimensione prima sconosciuta; non compierla può rinviare ai propri limiti. E il riconoscimento dei propri limiti fa parte dell’umanesimo ebraico.
La tradizione dell’ortodossia italiana, flessibile, umana, “soft” – come dicono gli stranieri che la conoscono e l’apprezzano – è un bene prezioso, insieme dell’ebraismo e della cultura italiana, che dovrebbe essere riconosciuto e valorizzato molto di più.

Donatella Di Cesare, filosofa