Qui Firenze – Un albero per Bartali, la prima testimonianza

Arriva da una fiorentina residente dal 1974 in Israele la prima testimonianza utile per far sì che piantare un albero nel giardino dello Yad Vashem in onore di Gino Bartali non sia più una mera utopia ma una possibilità concreta. Un albero in quel luogo simbolo della Shoah e di chi si oppose al Male sarebbe, a detta di molti, il giusto riconoscimento per il grande corridore che negli anni della furia nazifascista partecipò a una complessa operazione di salvataggio coordinata dalla Delasem che portò in salvo circa 800 ebrei. Una storia che è venuta fuori nella sua interezza (o quasi) solo dopo la morte di Bartali. Perché sebbene toscano loquace, Ginettaccio fu un eroe silenzioso: parlare dei suoi straordinari meriti extra ciclistici non era il suo sport preferito.
“Non ci si fa belli sulle disgrazie altrui”. Con questa frase liquidava quanti, giornalisti o curiosi, gli chiedevano insistentemente di quelle numerose sgambate tra Firenze e Assisi, dove consegnava alle suore del convento di San Quirico documenti da falsificare, che grazie a sapienti tipografi sarebbero divenuti un prezioso lasciapassare per gli ebrei ospitati tra quelle mura. Li teneva nascosti nella canna, sotto il sellino e nelle impugnature del manubrio. Con tutti gli incredibili pericoli che ciò comportava. Una perquisizione da parte del nemico e con ogni probabilità il suo destino sarebbe stato un appuntamento davanti al plotone di esecuzione. Ma Bartali aveva un alibi inattaccabile (e infatti la sua bici non fu mai smontata): il motivo delle sue frequenti pedalate tra Toscana e Umbria era solo una questione agonistica, un faticoso allenamento per le grandi corse a tappe che sarebbero riprese una volta cessate le ostilità.
La signora Giulia Donati, madre del giornalista Aldo Baquis, è tornata a scavare nei ricordi di quegli anni drammatici. A lei e al figlio è recentemente giunta voce della mobilitazione lanciata negli scorsi mesi su iniziativa di Sara Funaro (di cui il giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche ha dato notizia nel numero di aprile) e finalizzata a rendere omaggio al ciclista che di grande non aveva solo lo slancio, ma anche il cuore. Così ha deciso di parlare, dando un nome a tutti coloro che si prodigarono per salvare lei e i suoi cari dalle grinfie dei nazifascisti e da quelle dei delatori che infestavano le strade di Firenze. Tra le persone citate, per l’appunto, Gino Bartali. Lo ha fatto in un documento che nei prossimi giorni verrà tradotto in ebraico e consegnato ai funzionari dello Yad Vashem incaricati di dare il via alla procedura di attribuzione dello status di Giusto tra le nazioni ai meritevoli di tale appellativo. Nel documento, la signora Donati ripercorre le tappe che portarono la sua famiglia a scappare dalla città natia per riparare a Viareggio e dintorni, dove due anziane sorelle (“all’epoca sulla settantina”, si legge nella testimonianza) si presero cura della loro sorte. In un primo momento la famiglia Donati fu ospitata in un appartamento in via Zara. Poi Isabella Pacini e Settilia Crocini, questi i nomi delle due sorelle, cercarono un alloggio al Secco, frazione del comune di Lido Camaiore. Là vi trovarono una persona fidata che diede in affitto la sua abitazione. Isabella e Settilia, nonostante i mille pericoli, non fecero mai mancare il loro aiuto e tutti i giorni portavano da mangiare a Giulia e ai suoi cari. Fino a quando la linea ferroviaria tirrenica venne bombardata, episodio che le costrinse a trasferirsi anch’esse al Secco. E fu proprio in quei travagliati momenti che fece capolino l’inconfondibile profilo di Gino Bartali, che non percorreva solo la tratta Firenze – Assisi ma anche strade e polverosi sentieri del Lucchese e del Pisano. Il corridore di Ponte a Ema aveva con sé documenti falsi da consegnare ai Donati, nuove identità che avrebbero consentito loro di trovare più facilmente la fuga. Ma al momento della consegna dei documenti ci fu una clamorosa incomprensione. Settilia non capì chi fosse e cosa volesse quel ciclista che aveva bussato con insistenza alla porta. Tanto che lo rimandò indietro. Solo parlandone in seguito con la sorella, avrebbe scoperto il perché della sua presenza al Secco. Decisero di tenersi quella storia per sè: questa vicenda, forse per non creare ulteriori apprensioni alla famiglia Donati, sarebbe stata raccontata loro solo dopo la liberazione. Adesso, dopo tanti anni in cui non è stata divulgata, è finalmente patrimonio di tutti. Probabilmente non basterà ancora per piantare un albero allo Yad Vashem, ma la speranza di molti è che possa rappresentare solo la prima di una serie di testimonianze che riescano a far tributare il meritato riconoscimento ad un grande protagonista del Ventesimo secolo.

Adam Smulevich