Donazioni samaritane
C’è uno strano destino nei nomi. L’altro giorno è stata diffusa la notizia che il Consiglio Superiore di Sanità, accettando un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, ha dato parere favorevole alle “donazioni samaritane”. Intendento con questa definizione le donazioni di un rene fatte da viventi a favore di destinatari sconosciuti, come puro gesto di solidarietà umana. Fino ad ora erano consentite le donazioni a favore di un destinatorio conosciuto e biologicamente affine come un parente. La stranezza, che deriva dal vocabolario anglosassone, è la definizione “samaritana”. La fonte è una nota parabola evangelica sulla vittima di un’aggressione che chiede aiuto ai passanti; prima un Kohen, poi un Lewi rifiutano l’aiuto; finalmente arriva un Samaritano che si prende cura amorevole del ferito. I Samaritani (Kutim) erano una popolazione con una religione affine a quella biblica ebraica, che si trovavano in continuo conflitto con gli ebrei. La parabola serve a sottolineare come la solidarietà umana non deve conoscere barriere etniche. Ma la sua formulazione, o l’uso che ne è stato fatto nella predicazione successiva, contiene un nucleo antigiudaico, perché dopo aver dimostrato che nè Kohen né Lewì sono solidali, invece di considerare il terzo gruppo ebraico possibile, cioè l’Israel, si passa al “nemico” cioè al Samaritano, che dà agli ebrei una lezione di stile. Finchè si tratta di una polemica interna tra ebrei, passi. Ma il narrato si presta alla dimostrazione che gli ebrei non sono capaci di gesti solidali. Di qui il paradosso: nel linguaggio comune, specialmente anglosassone, samaritano è sinonimo di generosità disinteressata, ma dietro alla parola c’è il retropensiero che loro sì, ma voi no.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma