Stefano

Il 9 ottobre 1982 credo di aver sentito l’esplosione che si ripercuoteva sotto i tetti di Trastevere. Di quei tempi, era normale un’esplosione. Le persone continuavano a guardarsi, sospese come in una cartolina con la scritta: “Roma, attentato”. Abituarsi faceva sopravvivere in un universo completamente illegale. Uno camminava a via della Scala, sentiva gridare ed era uno scippo; faceva una passeggiata in centro, un boato, ed era saltata in aria una sede del Movimento Sociale. Nella tarda mattinata, qualcuno sotto le finestre disse concitato che c’era stata “una bomba”, e dopo nell’aria è passata la parola “sinagoga” – non la sentivo da anni. A sentirla, e poi a sentire anche “bomba”, i miei piedi si mettono a correre. Per le scale, per piazza de’ Renzi. Ricostruisco il percorso, a piazza Trilussa c’è uno che dice “era un bambino di due anni”. Passo il ponte Garibaldi, oggi non c’è quello che chiede mille lire alle auto. A via Arenula ammutolita, la gente si affaccia sul Ghetto senza entrare. Davanti alla sinagoga c’è folla. Sopra le teste, una bandiera d’Israele. Poi c’è l’inferriata, e sullo strazio i mazzi dei fiori. La gente è in silenzio, una voce grida: “Assassini”. C’è un donna in vestaglia che piange. Arriva una macchina, scende Pannella.
Il pomeriggio Roma è vuota come se si vergognasse a farsi vedere. Mi avvicino alla mia edicola. Il giornalaio mi dirà qualche parola bella, è un vecchio compagno. Gli chiedo se ha saputo di stamani, del bambino. Con la testa indico i palazzi, oltre i quali c’è il Ghetto. Lui fa spalluccia sotto la giacca di pelle nera e senza scomporsi rilascia la sua opinione.
– So’ tappetari.

Il Tizio della Sera