Davar Acher – Il rivelatore del sarcasmo

Le università in Israele sono fra le migliori al mondo e i giornali israeliani riportano spesso i successi della loro ricerca tecnologica e scientifica. Qualche giorno fa è uscito un articolo del genere sul Jerusalem Post su una ricerca del dipartimento di Computer Science della Hebrew University che avrebbe perfezionato un “rivelatore di sarcasmo”, un risultato piuttosto strano allo sguardo di un semiotico, ma a quanto pare capace di rivelare automaticamente questo effetto linguistico nei testi di diverse lingue con buoni risultati statistici. Conosco più di una persona a cui questo dispositivo sarebbe notevolmente utile, ma non è su questo che verte oggi la mia riflessione. Mi sembra interessante che fra i molti effetti di senso cui si potevano dedicare, gli informatici israeliani abbiano scelto non la “captatio benevolentiae” o la persuasione o la sineddoche o lo straniamento o l’ossimoro, ma proprio l’ironia, anzi la sua forma più aggressiva che è il sarcasmo.
Che esista una profonda solidarietà fra cultura ebraica e ironia, una vera e propria aria di famiglia che impone agli ebrei quasi come una seconda natura di essere ironici e autoironici, è una vecchia osservazione, che si trova per esempio nel bellissimo libro di Freud sul Witz o “motto di spirito”, come si è cercato di tradurlo in italiano. Freud vede molto bene il carattere aggressivo e trasgressivo dell’ironia e spiega l’abitudine tutta ebraica di applicarla non solo agli altri ma anche a se stessi con la necessità di proteggersi preventivamente dalle aggressioni altrui, assumendole in forma mimetica. Un modo di agire che in certi casi sconfina in quell’altro fenomeno tutto ebraico ma molto meno raccomandabile che è l’odio di sé, ma che spesso è, in fondo, una derisione di chi ci deride, una forma di autodifesa. Bergson (un altro intellettuale di origine ebraica) parla del riso come reazione alla degradazione di una persona in una cosa e sottolinea che per ridere bisogna da un lato sospendere l’empatia, il sentimento di vicinanza per l’uomo-cosa di cui si ride, ma dall’altro instaurare la solidarietà dei propri simili in opposizione a ciò che è deriso – e magari è più potente della piccola comunità ridente creata dalla battuta. Forse per questa ragione gli ebrei non sono certamente il solo popolo oggetto di barzellette e battute sgradevoli (lo sono i belgi, gli scozzesi, i genovesi ecc.); ma certamente il solo ad essere anche grandi inventori di sarcasmo su di sé e sugli altri: proprio perché hanno spesso sperimentato la perdita dell’empatia altrui e la trasformazione forzata in cose moleste e rovesciano questa disagevole esperienza in motti di spirito. Riderne è un modo per esorcizzare se non l’aggressione fisica, almeno quella simbolica.
Senza approfondire queste dinamiche, ci si può chiedere dove nasca nella storia dell’ebraismo questa nostra passione per il riso. Nella Torah il riso ritorna con insistenza intorno alla nascita di Itzhak (Bereshit 17,17-19; 18,12-15; 21,6-9) anche per via dell’assonanza etimologica con il verbo ietzahek, ridere. Ma si tratta di un riso amaro, intrecciato com’è alla vicenda di Ishmael e soprattutto al futuro destino della “legatura” o sacrificio di Itzhak, della cecità, del conflitto fra i figli. La vita del patriarca nominato secondo il riso sarà tutt’altro che allegra: anche questo può essere letta una forma di implicito sarcasmo. Più probabilmente il prototipo dell’ironia ebraica viene invece dalle clamorose forme di protesta e dunque di comunicazione dei profeti, che sposano prostitute, portano addosso gioghi da buoi, vanno in giro nudi, danno nomi assurdi ai loro figli, insomma fanno un sacco di cose indecorose per attirare l’attenzione del popolo ebraico sugli errori e sui pericoli che corre. Sono “scherzi” serissimi, in cui si mette in gioco la vita. Forse ancora la nostra ironia trae esempio dal piacere intellettuale per la disputa e la falsa ingenuità di certe bizzarre affermazioni talmudiche che spesso appaiono così strane, prese alla lettera, sulla bocca di intellettuali raffinati com’erano i nostri saggi, da evidenziare una straordinaria passione per il paradosso come metodo dialettico. Difficile dire.
Una ricostruzione della storia e delle forme del riso (della sua pratica, non solo della sua enunciazione) nel pensiero ebraico, è ancora tutta da scrivere. In mancanza di una teoria, ci resta la pratica, sempre più necessaria al popolo ebraico quanto più esso è di nuovo oggi considerato senza empatia dal mondo e talvolta anche da certi suoi serissimi figli benpensanti sotto la forma abusiva di uno Stato o di un Governo come una “cosa” strana e sbagliata, anzi un ostacolo, che si oppone ai magnifici destini e progressivi del mondo verso la pace e la multiculturalità. Talvolta ne escono pensieri bizzarri (o interessati), che ci suggeriscono nel suicidio collettivo la sola forma di salvezza possibile. Col detector della Hebrew University, possiamo sperare, sarà più facile capirlo per tutti.

Ugo Volli