Il pavone e la necessità dell’interrogazione

Va molto di moda un gergo militaresco che crea fronti, allineamenti, appiattimenti. E contiene una subdola violenza che impedisce di porre interrogativi, di sollevare domande. Lo spirito critico finisce per essere sospetto, il disaccordo malvisto.
Agli ultras che assaporano il clima bellico, e non perdono occasione per ridurre il grigio della riflessione al bianco o al nero, bisognerebbe ricordare che “saggezza”, hokhmah, può essere interpretata come koah-mah, cioè la forza del “che cosa”? Saggezza nell’ebraismo vuol dire capacità di interrogare e interrogarsi. Il “perché” è il segnale stesso della coscienza vigile che sa assumersi la responsabilità della storia e trasformare il destino nella possibilità di un oltre.
Non sarà perciò sbagliato raccontare ai dogmatici della pretesa evidenza una storiella che magari qualcuno conosce già. A una povera donna, cui deve essere restituita una somma di denaro, il creditore non consegna che un pavone. Non avendo mai visto quell’animale, va dal rabbino per sapere se è kashèr. E il rabbino le risponde: “Mio padre, il grande Rabbi Yankel, ha sempre detto che il pavone non è kashèr”. E la donna: “Che devo fare allora del mio pavone?”. Il rabbino: “Lascialo pure nel mio pollaio; ci penserò io e tu potrai venire a vederlo quando vorrai”. Il pavone fa il suo ingresso nel pollaio del rabbino e la donna va a trovarlo regolarmente. Passa un mese, ne passano due… Un mattino la donna non trova più il pavone; si precipita dal rabbino e gli chiede: “Rabbi! Rabbi! Dov’è finito il mio pavone?”. E lui risponde: “Il tuo pavone? Il tuo pavone… Me lo sono mangiato!”. “Cosa?– esclama la donna – Te lo sei mangiato? Ma non mi avevi detto che tuo padre, il grande Rabbi Yankel, aveva sempre sostenuto che il pavone non è kashèr?!”. “Verissimo – replica il rabbino – ma sulla questione del pavone mio padre e io non siamo mai stati d’accordo…”.

Donatella Di Cesare, filosofa