Una provocazione stimolante, ma irrealizzabile e controproducente

La provocatoria e stimolante proposta di Alain Elkann, di estendere la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei del mondo, ha suscitato molteplici reazioni, richiamando l’attenzione sul particolare, complesso rapporto tra Israele e la diaspora, la cui interrelazione anima e alimenta, in modo intenso e problematico, l’essere e il divenire della moderna identità ebraica. La proposta risponde evidentemente allo scopo di rinsaldare il legame tra l’ebraismo “di dentro” e “di fuori”, superando ogni ambiguità ed esitazione riguardo al senso di appartenenza e di solidarietà, da parte degli ebrei, nei confronti della comune patria ebraica, e va senz’altro lodata per il suo forte messaggio di sostegno nei confronti dello Stato di Israele, tanto più da apprezzare in quanto formulato in un momento delicato e difficile come quello attuale.
Ciò detto, appare doveroso ricordare per quali motivi tale proposta, oltre che giuridicamente irrealizzabile, potrebbe anche rivelarsi controproducente ai fini della stessa sicurezza di Israele, a cui essa vorrebbe invece contribuire.
Com’è noto, la Legge del Ritorno, approvata nel luglio 1950 dalla Knesset (e poi completata dalle successive Leggi della Cittadinanza e dell’Ingresso, del 1952), sancisce che ogni ebreo che lo desideri, al momento del suo trasferimento, attraverso la ‘aliyà’, nella Terra Promessa, acquisti immediatamente, in quanto ‘olè’, ‘salito’, la cittadinanza israeliana. Tale legge – che deriva direttamente dalla Dichiarazione di Indipendenza, che stabilisce che lo stato ebraico “aprirà le porte della patria a ogni ebreo” che vi faccia ritorno (6° c.), e “sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla riunione degli esiliati” (12° c.) -, con la sua incondizionata accoglienza verso tutti gli ebrei, pone già le basi di una naturale estensione della cittadinanza nei confronti dell’intero popolo mosaico, i cui componenti sono tutti eletti a ‘potenziali’ cittadino dello stato. Ma la cittadinanza israeliana, evidentemente, non viene estesa automaticamente a tutti, ma solo a coloro che esercitino concretamente tale facoltà, scegliendo di vivere in Israele. Trasformare tale cittadinanza da potenziale a effettiva, con tutti i connessi diritti e doveri (voto, tasse, servizio militare ecc.), indipendentemente dalla aliyà, sarebbe evidentemente impossibile, e non solo perché la grande maggioranza degli ebrei del mondo, verosimilmente, non vorrebbe farlo (né sarebbe giusto che coloro che rifiutassero di ‘promuovere’ l’identità ebraica a cittadinanza israeliana si vedessero perciò accusare di incoerenza, infedeltà o scarso patriottismo), o non potrebbe (ci sono ebrei anche in Paesi, come l’Iran, che mai permetterebbero una cosa simile), ma anche perché ciò sposterebbe impropriamente, e forse pericolosamente, il baricentro della responsabilità delle scelte da assumere per il destino dello stato ebraico (scelte, non dimentichiamo, che assumono spesso un carattere di assoluta urgenza e drammaticità). Chi mai potrebbe avere l’autorità e il coraggio di dire “sì o no”, di fronte, per esempio, a una grave opzione di pace o guerra, se non coloro che sono chiamati a sopportare direttamente (anche con la propria vita o morte) le conseguenze della stessa? Chi mai potrebbe dire “facciamo così o così”, comodamente seduto in poltrona, al sicuro nella propria casa di New York o di Roma? Sono problemi che sono già stati motivatamente sollevati in Israele, di recente, riguardo alla proposta di estendere il diritto di voto ai cittadini israeliani residenti soltanto all’estero (di numero, ovviamente, molto inferiore a quello di tutti gli ebrei del mondo), e la giusta richiesta di permettere a tutti i cittadini l’esercizio di un fondamentale diritto di cittadinanza si è scontrata con la forte obiezione che la responsabilità del voto non può essere disgiunta dalla sopportazione delle ricadute pratiche dello stesso: un principio forse non tanto avvertito da chi viva tranquillamente in pace, ma fondamentale per un Pese in continuo, reale pericolo.
Anche con tutti gli ebrei del mondo come cittadini, d’altronde, Israele resterebbe pur sempre un Paese molto piccolo, circondato da miliardi di non ebrei. Il compito storico della golà, al momento attuale, non è quello di ‘diventare’ Israele, ma di difendere le ragioni di Israele nel modo dei gentili, facendo capire quanto esse coincidano con le ragioni della civiltà, del diritto, della pace, dell’uguaglianza nella diversità. Che è, poi, lo stesso compito anche dei molti, tanti non ebrei che amano Israele. Al punto, a volte, da considerarla propria “patria ideale”, senza con ciò desiderare di diventare israeliani, né ebrei.

Francesco Lucrezi, storico