vita ebraica…

“Chi potrà contare la polvere di Giacobbe e calcolare solo un quarto d’Israele? Possa io morire la morte dei giusti, e la mia fine possa essere uguale alla sua” (Numeri 23:10). Il Chafez Chayym (Rabbi Israel Meir HaCohen Kagan, 1838 – 1933) spiega che con questa espressione, Bil‘am chiede di morire la “morte del giusto”; il mago astrologo mesopotamico, vuole morire come un ebreo però non desidera affatto vivere come tale. Una vera vita ebraica richiede molto alla persona: conoscenza, abnegazione, osservanza, devozione, volontà. La “vita del giusto” non si addice a Bil‘am, egli ne desidera solo gli effetti, che la sua vita possa continuare nel mondo futuro. Ma “morire” come un ebreo, anche se può essere auspicabile, non è mai da considerare superiore al voler “vivere” da ebreo. Rav Itzchak Nissembaum, morto nel ghetto di Varsavia nel 1943, coniò l’espressione Kiddush hachayym – santificazione della vita – con la quale volle insegnare che da quel momento in poi gli ebrei avrebbero dovuto considerare come vero “Kiddush haShem” – santificazione del nome di D., il vivere una concreta vita ebraica. Un concetto che il filosofo Emil L. Fackenheim avrebbe chiamato il “614esimo precetto”: il dovere di sopravvivere da ebrei e non dare una vittoria, neanche postuma, a tutti coloro che volevano e vogliono la nostra scomparsa, come individui, come popolo, come nazione.

Adolfo Locci, rabbino capo di Padova