Quali rabbini, quale futuro – “Pressioni inaccettabili”
Sono contento di aver promosso un bel dibattito con il mio intervento sul Tribunale rabbinico unico italiano. Un po’ meno soddisfatto perché qualcuno ha preso le mie note come un attacco alla sua sincerità. Mi è stata anche rinfacciata diffidenza verso gli interlocutori e come unica preoccupazione il mantenimento del potere rabbinico. Ma andiamo in ordine a chiarire le cose. Ho già espresso ripetutamente e in molte sedi, per iscritto e verbalmente, cosa penso delle proposte di modifica dello Statuto che riguardano il rabbinato. Se siano difese di potere o indifferenza al degrado comunitario lo giudicherà chi ha letto, chi legge o chi ha sentito i miei interventi . Riassumo alcuni dati:
1. Si vuol far passare un articolo (il n. 3) secondo il quale l’iscrizione alla comunità è decisa dalla Giunta, “sentito il rabbino”. Se il rabbino dice che il candidato non è ebreo alla Giunta la cosa può non interessare. Domanda: cosa vuole difendere il rabbino, in quel momento, il suo “potere” o l’ebraicità della comunità?
2. Si vuole eliminare di fatto la figura istituzionale del rabbino capo, rendendola sostituibile con quella del semplice rabbino. Chiaro, un rabbino capo potrebbe essere più difficile da controllare, allora rendiamolo innocuo.
3. Si vuole introdurre il principio dell’incarico rabbinico a tempo determinato, per un certo numero di anni. I rabbini italiani hanno detto ok, ma con quali garanzie? Garanzie vuol dire: come può mantenere il rabbino la sua autonomia di giudizio se è ricattabile ogni momento di licenziamento, specie se non risponde alla richiesta più pressante che gli viene rivolta (leggi: conversioni)? Cosa si prospetta al domani del mancato rinnovo, in termini di posizione economica e sociale? Ne vogliamo parlare o è solo una difesa corporativa del potere, indifferente al degrado delle comunità?
Su questa base si è inserita la questione del Tribunale rabbinico unico nazionale. Nella mia nota facevo presenti due cose: che non è un modello diffuso, anche nei luoghi in cui c’è un organismo rappresentativo comunitario centrale (come Francia e Regno Unito). La seconda cosa è che temo per le pressioni sul tema delle conversioni. L’avessi mai detto.
Ho sbagliato. Ho pensato male. Non esistono pressioni sulle conversioni. I rabbini sono del tutto liberi e autonomi. Non c’è nessuna pressione sociale collettiva o personale su questo tema. Le assemblee infuocate alle quali sono stato presente, e pesantemente criticato, trattavano in realtà del tema dell’accoglienza e dell’amore. Non ho mai fatto colloqui estenuanti di proteste piene di risentimento, né ricevuto telefonate di “consiglio”, di inviti minacciosi, di insulti, letteracce di tutti i tipi, accuse sulla stampa nazionale. Mi sono sbagliato a leggere le notizie diffuse a mezzo stampa sulla vicenda della revoca di rav Somekh, in cui è stata data l’interpretazione della vittoria dei laici contro l’integralismo (“ed è solo l’inizio, andremo avanti….”), e c’è voluto un po’ per avere qualche smentita istituzionale. Ho anche capito male l’esternazione del neo Presidente della Comunità di Milano che considera assurda l’endogamia, per poi correggersi invocando le conversioni. Ho anche sbagliato a leggere la proposta di Statuto che chiede di formulare criteri per le conversioni. Nelle proposte di riforma non c’è stata nessuna richiesta di criteri univoci per argomenti non meno delicati come i divorzi, o la disciplina delle controversie interne, o la shechità. Solo sulle conversioni bisogna dare i criteri e chissà perché. Sono lieto che illustri interlocutori, amici di vecchia data, mi abbiano chiarito (e conoscendoli non avevano bisogno di farlo) che non vogliono regole “facili” ma “regole chiare e decisioni coerenti”. Ma non sono loro che devono chiarire questo punto.
Insomma credo di avere abbastanza dati per pensare che su questi argomenti vi sia una forte polemica e un fronte che preme per abbattere o limitare le possibilità rabbiniche di opporre resistenza. Resistenza per la difesa della ebraicità delle comunità, non del proprio “potere”. Non è “cultura del sospetto”, sono dati oggettivi su cui bisogna far chiarezza.
In realtà sono perfettamente d’accordo che si deve mettere ordine su tante cose e la questione del o dei tribunali rabbinici è una di queste. Ma l’ordine va fatto serenamente, avendo ben chiare le regole del gioco e le necessità. Spero che questa nostra discussione possa portare a questo risultato.
rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma