digiuno…

Delle varie disgrazie riferite dalla Tradizione rabbinica a fondamento del digiuno pubblico che osserviamo oggi, 17 di Tamùz, primeggia quella della rottura delle Tavole del Patto da parte di Moshè di fronte al popolo che adora il vitello d’oro. Ma quella rottura non è forse necessaria? L’idolo, dice Alain Finkelkraut, è il divino messo a disposizione, a portata di mano, incarnato in un volto pietrificato. L’idolatria quindi tradisce la concezione monoteistica con dei surrogati, tenta di afferrare Dio per manipolarlo per i propri scopi, ed è qui la sua affinità con la magia, che la Torà condanna. “Avodà zarà” , letteralmente “culto straniero”, è infatti la definizione con cui la Tradizione ebraica indica non tanto l’oggetto dell’“idolatria”, quanto piuttosto, quei comportamenti e quelle modalità di interazione dettati da una confusione identitaria che si traducono spesso in tentativi di captazioni totemiche. Non è quindi l’immagine in sé a essere idolo. Una stessa figura può essere idolo o meno, a seconda del rapporto che si instaura con essa. Visto che il vitello dimostrava una confusione idolatrica, era forse possibile che gli ebrei trattassero anche le Tavole come un idolo. Forse avrebbero identificato in quelle Tavole di pietra lo stesso Dio Vivente, e magari avrebbero adorato le Tavole invece che Colui che le aveva realizzate. Trasformare il Dio vivente in una tavola di pietra sarebbe stato il culmine dell’idolatria, peggio che adorare falsi dei. La stessa parola divina sarebbe stata così pietrificata. E da quel momento, infatti, la Torà viene trasmessa a viva voce da Moshè, vivente ai viventi: estrema precauzione contro la cristallizzazione della Torà e della Voce.

Roberto Della Rocca, rabbino