Quali rabbini quale futuro – Anche le crisi servono
Una crisi più profonda di quanto si vuole ammettere ha colpito il piccolo mondo ebraico italiano. Ha aperto questa crisi la rottura avvenuta a Torino tra la Comunità e il suo rabbino capo. La coincidenza dei provvedimenti presi dalle autorità religiose ortodosse israeliane (la messa al bando dalle loro scuole dei libri di grandi scrittori del passato e contemporanei), ha in qualche modo evidenziato i motivi di questa crisi. Il caso torinese non è quindi il risultato di una “incomprensione” reciproca tra il rabbino capo e la Comunità torinese, come si tende a minimizzare. Si tratta invece dell’operato di un rabbino che, secondo il Consiglio di quella Comunità che lo ha licenziato, non ha tenuto conto delle tradizioni specifiche ma certamente non “eretiche” della Comunità di Torino, il cui rabbino capo avrebbe reso più rigide del dovuto le regole relative ai matrimoni misti e al frutto di quei matrimoni. Il rabbino avrebbe inoltre introdotto nuove proibizioni e nuovi obblighi sulla kashrut, probabilmente con riferimento ad analoghi usi del rabbinato ortodosso d’Israele, che pure non dovrebbero avere valore extra moenia israeliane (come da antica consuetudine ebraica). Un operato, quello dell’ex rabbino capo di Torino, che di fatto, si dice, ha allontanato molti ebrei, certo non dall’ebraismo, ma dalle sue interpretazioni più discutibili e tendenti a ridurre l’ebraismo a una monade. E’ costume ebraico da sempre di discutere, contestare, abbracciando il metodo del dubbio e quindi degli interrogativi che escludono ogni forma di idolatria, fosse pure un’idolatria parareligiosa, della discussione e non dell’imperio: nessuno ne è al di sopra. Il metodo del dubbio non è un’invenzione dell’Illuminismo e fa parte da sempre della cultura ebraica. Per questo forse l’ebraismo non si è espanso come altre religioni (la parola stessa “religione” male si adatta a definire l’ebraismo), perché non ha dogmi, non ha Verità assolute o relative, ma solo domande. Le risposte sono sempre soggette a verifiche e revisioni. Se l’ebraismo ai giorni nostri non si è barricato dentro una sorta di volontario e invisibile fortilizio (nei ghetti veri gli ebrei vivevano per volontà altrui) chiuso al confronto e alla ricerca lo si deve probabilmente ad alcune grandi figure ebraiche del passato, da Maimonide (tenuto dagli ortodossi di allora in sospetto di eresia) a Baruch Spinoza che aveva aperto una porta del fortino per affrontare all’aperto i confronti e le domande difficili (sulla sua testa però cadde il herem, la scomunica, a tutt’oggi non ritirata), e poi a Moses Mendelssohn, “reo” anch’egli di avere formulato domande, avanzato ipotesi, dubbi, cercato nuove interpretazioni ai testi sacri. Vero è che la porta si è poi chiusa alle sue spalle, ma la via era ormai indicata, quella dell’incessante ricerca e del dialogo, la via dell’Illuminismo ebraico, la Haskalah. Mendelssohn non voleva rivoluzionare l’ebraismo, ma auspicava una maggiore apertura degli ebrei verso la società circostante, la loro partecipazione alla vita del paese in cui vivono, cominciando dall’uso della lingua nazionale e non solo dello yiddish, e dall’ingresso nel servizio civile e in quello militare (osteggiati entrambi dal rabbinato tedesco dell’epoca). Negli Stati Uniti le molte diverse comunità, dei riformati, dei liberali, dei conservatori e di una decina di altre minori comunità, non si sono allontanate dall’ebraismo, non lo hanno ripudiato, e raccolgono oggi la maggioranza degli ebrei americani. Questa pluralità di “declinazioni dell’ebraismo” con una maggiore apertura verso l’esterno e comprensione all’interno, senza (più) paura di fare proselitismo, ha salvato con la difesa dei numeri l’entità ebraica americana da una altrimenti fatale estinzione. Il punto non è di stabilire se tutti questi ebrei hanno ragione o torto, ma di legittimare tutte le “declinazioni” ebraiche che hanno cercato di rendere meno rigide le barriere di formule, rituali, obblighi e divieti. Di legittimarle perché nessuno, né gli ortodossi né i liberali, né i conservative e via dicendo, nessuno può pretendere di detenere la Verità. La vicenda della Comunità di Torino con il suo “divorzio” dal rabbino in carica, uomo di grande cultura e rigore, di cui però, come dicevamo, erano generalmente poco apprezzati l’iporealismo e l’eccessiva severità, apre una falla nella fittizia compattezza del minuscolo ebraismo italiano. Con una finzione davvero molto nostrana (a dimostrare la perfetta integrazione degli ebrei nel tessuto nazionale) l’ebraismo ufficiale italiano si definisce “ortodosso”, cioè osservante di tutti i precetti accumulati nei secoli e che spesso, alla lettura delle 613 mizvot, risultano qualche volta imbarazzanti. Per combinazione la “crisi” torinese e il veto di molti libri nelle scuole religiose in Israele (ahi, il “popolo del Libro”!) hanno prodotto da diverse parti dell’Italia ebraica l’invito a un dibattito aperto, senza infingimenti, teso a riportare l’ebraismo italiano, non solo quello torinese, nei binari tracciati nel tempo da altri rabbini, binari che portano, senza timori di eresie, al di là delle mura di un nuovo ghetto autoimposto, all’avvicinamento di chi vorrebbe entrare e non vi è accolto oppure di chi è dentro ma se ne sta allontanando. Non si tratta di nessuno scisma, per carità, è una semplice sollecitazione al dialogo, al confronto, e infine al riconoscimento della “pluralità di declinazioni”.
Luciano Tas e Aldo Zargani, Pagine Ebraiche, luglio 2010