Quali rabbini quale futuro – Un rabbino per amico

In epoca di facili caricature e di grandi polemiche sul paventato rischio dell’ebraismo italiano di perdere la propria natura per approdare a modelli “poco” ortodossi o, per contro, troppo rigidi se non integralisti, ho letto con piacere l’intervento di rav Riccardo di Segni sullo scorso numero di Pagine Ebraiche intitolato Pochi ma buoni. O tenerissimi. La ricetta giusta per il rabbino. L’articolo, che sento di condividere quasi completamente anche per la sua non celata ironia, nelle sue conclusioni ci pone davanti ad una domanda seria alla quale proverei a dare una risposta: la mia. Dopo una breve disamina dei vari modi di vivere il proprio ebraismo, in Italia e altrove, divisi fra categorie (che rappresentano oramai idee caricaturali) il rav Di Segni pone una questione: come vorreste il vostro rabbino? Scrive Di Segni: “Si pretende dal rabbino quello che non si chiederebbe al proprio ingegnere, medico, avvocato. A chi ti costruisce la casa non si chiede di fare calcoli arruffati, al medico che ti cura non si chiede una diagnosi e una terapia approssimativa, all’avvocato che ti difende non si chiede di essere ignorante della legge e debole nella controversia. A chi si chiede di essere meno rigido? Al vigile che ti fa la multa, all’ispettore del fisco, al professore che ti esamina… A quali di queste figure professionali è paragonabile il rabbino, in particolare il rabbino capo?”. Ecco: non ho mai pensato ai rabbini come a degli avvocati, né tantomeno come a degli ingegneri… figuriamoci poi che tragedia culturale e umana sarebbe considerare il proprio rabbino un esattore o un vigile urbano! E non perché io abbia più o meno simpatia per queste categorie professionali, ma perché l’ebraismo non è paragonabile ad una di queste professioni e anche perché i rabbini non ci devono dare “consulenze” (tecniche, fiscali, amministrative, giuridiche…). Le nostre regole non formano un sistema giurisprudenziale pragmatico volto a una sana organizzazione della nostra società (comunità): ci sarebbe bastato il diritto romano. Né le nostre regole sono la rappresentazione o l’interpretazione di una visione astratta del mondo, e del ruolo dell’essere umano in questo universo: ci sarebbe bastata la filosofia greca. L’ebraismo è qualcosa più di una religione, qualcosa di più di una filosofia: direi che è una disciplina o se volete un “percorso formativo”, fondato su valori, principi e… comportamenti (piuttosto difficili da rispettare). Senza andare troppo per le lunghe: se proprio volessimo cercare un parallelo, proviamo a trovarlo in altre discipline (anche quelle sportive se volete), dove i Maestri non stanno dietro una scrivania a insegnare o a giudicare, ma “praticano” con gli allievi: condividono esperienza, fatica, emozioni, problematiche, gioie e … amarezze. Ecco, mi piacerebbe che i nostri rabbini si paragonassero a degli allenatori, a degli istruttori, che dividono le prove e la disciplina con gli allievi, aiutandoli a progredire, giorno per giorno. E un buon istruttore sa che il percorso formativo (atletico o intellettuale, psicologico o esistenziale) è diverso per ognuno di noi e con difficoltà diverse per ciascuno di noi. Certo, l’ebraismo non è facile come il tennis da tavolo o come gli scacchi: forse è più simile agli sport di mare o di montagna e, per affrontare certe sommità o per immergersi verso la profondità, occorre una forte disciplina, una grande preparazione, molto studio e non poche rinunce. Non ci si può immergere senza una buona preparazione teorica e senzaun’adeguata preparazione fisica. Per raggiungere certe vette bisogna compiere scelte e fare rinunce, darsi uno stile di vita, scegliersi un maestro e trovarsi un compagno: perché per mare o in montagna, così come nella nostra antica disciplina, andare da soli è un errore, così come anche il trasgredire a regole e insegnamenti potrebbe farci perdere la vita, la nostra anima, sia in mare che nella vita di tutti i giorni. Non è quindi in questione il “rigore” (o la “rigidità”!) dei nostri rabbanim, quanto la loro capacità di svolgere il proprio compito: dovrebbero lasciare le poltrone dietro le scrivanie e le loro lenti (micro o telescopiche), per condividere con gli altri una pratica quotidiana, dove l’apprendimento (non uguale per tutti) sia un’esperienza fatta in comune. In conclusione, non ci servono rabbini professori o professionisti, ci servono maestri compagni di esperienza: a dirla tutta, vorrei un rabbino per amico.

Victor Magiar, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Pagine Ebraiche, Luglio 2010