Lo Shabbat e un sionismo rigenerato
Il popolo ebraico non santifica lo spazio, ma il tempo. È lo Shabbat, il palazzo nel tempo – come dice Heschel – che lo distingue dagli altri popoli incapaci di sollevarsi dall’immanenza spaziale. Su questo fondamento, che si difende senza alzare le armi, avvento di un tempo altro, diverso da quello delle nazioni, il popolo ebraico ha edificato la propria identità. Non necessariamente una identità religiosa, perché lo Shabbat ha un valore non solo teologico, ma anche politico, spirituale, culturale.
Forte dello Shabbat, rinnovando ogni settimana la memoria della promessa, non ha mai smesso di guardare a Sion. Ma Sion non è una delle tante idee nazionali. E, per chi ama Sion, lo stato non è la meta, ma la via verso la meta – che si chiama Sion. Sui rischi di prendere lo stato come punto d’arrivo, di idolatrarlo, di commettere avodà zarà, ha messo in guardia tutto il «Kulturzionismus», il sionismo culturale. Non solo Martin Buber. Ma anche Gershom Scholem, fino a Emmanuel Levinas e a Jacob Taubes. E oggi non mancano i filosofi – come Shmuel Trigano – che non si stancano di opporre alla «normalizzazione» patriottica e nazionalistica la «rigenerazione». Solo un sionismo rigenerato e consapevole può fare di Sion il centro del mondo divino, del Regno mondano di D-o.
Donatella Di Cesare, filosofa