“Il sufi che veniva da lontano”
Il primo di giugno è stato sepolto nella cripta di famiglia della sua grande casa a pochi metri dalla moschea di Al ‘Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme, lo sceicco Abd El Aziz Al Bukhari, stroncato dall’ennesimo attacco di cuore. Cresciuto nel quartiere arabo, nella stessa casa dove le sue spoglie riposano, Abd El Aziz (o, più semplicemente, Aziz) era il terzo figlio dello sceicco Mussa, discendente dall’imam Al Bukhari, uno dei più prestigiosi commentatori della Legge orale islamica dell’Uzbekistan. La famiglia Al Bukhari, seguace del sufismo Naqshabandi, si era trasferita a Gerusalemme all’inizio del XVII secolo, eppure, era ancora considerata “straniera”; come uzbeco (e, quindi, non arabo) Aziz non ha avuto la vita facile a “Al Quds”(in arabo, la “Città Santa”); poco importava che sua madre fosse di Shkhem, lui era sempre uno venuto da un mondo diverso e lontano, come, del resto, attestavano le pareti delle sue numerose stanze, coperte di smaglianti ricami di Samarcanda.
Oltre che straniero, Aziz era un “tipo strano” anche di suo. Sempre discolo sin da ragazzino, era stato allontanato da casa dal padre, che, scegliendolo come suo successore spirituale, lo aveva mandato a studiare in Turchia, sperando che mettesse giudizio, ma Aziz non per nulla era un figlio che dava filo da torcere: dopo un paio d’anni nella sufica Konya, preferì andarsene negli Stati Uniti, dove si mise a fare il tassista. In seguito, si diede all’arte culinaria, aprendo con successo ristoranti a Chicago, Los Angeles, Phoenix Arizona.
Aziz sapeva che il padre lo aveva destinato a succedergli come sceicco naqshabandi, ma non voleva saperne. Gli piaceva vivere e sorridere; dirimeva sorridendo le controversie e sorridendo riportava la pace tra i vicini (di tutte le religioni e di tutte le razze) quando scoppiava una lite. Aveva sempre pronte delle storielle azzeccate, di quelle che sembrano fatte per divertire e, invece, poi si scopre che fanno pensare. Amava le donne e le donne lo amavano. Gli piaceva cucinare per gli ospiti e fumava senza darsi pensiero: “Brucio il Satan”, diceva scherzosamente a chi gli faceva notare i pericoli del tabacco.
Dopo il primo attacco di cuore, sul tavolo operatorio, decise che se a Dio piaceva tenerlo in vita, si sarebbe recato a Gerusalemme a prendere, finalmente, il posto del padre, ormai morto.
Da una quindicina di anni a questa parte, Aziz è stato un “peace-maker” a Gerusalemme est, assieme a uno sparuto, ma attivissimo gruppo di ebrei e musulmani dediti a promuovere la pace. Per la causa della pace, ha girato il mondo; era a Siviglia, al grande incontro di rabbini e sceicchi di tutti i Paesi, riuniti nel 2006, dalla fondazione “Hommes de Parole” ( auspici il re di Spagna e il re del Marocco) per studiare la strategia migliore per seminare nei cuori dei credenti la pace. A una “tavola rotonda”, cui parteciparono anche otto sceicchi di Gaza, tutto il fragile equilibrio tra esponenti dell’Islam e dell’ebraismo, faticosamente tentato, stava per saltare: la guerra non si esorcizza con la buona volonta’ e con le buone intenzioni, la soluzione del conflitto richiede azioni politiche, proclamavano i religiosi di Gaza.
Imperturbabile, Aziz ha pregato l’imam della moschea di Omar di cominciare a cantare. Tutti I musulmani si sono sentiti improvvisamente “a casa”, mentre gli ebrei prendevano il largo. Però, a un certo punto, Rav Azran, marocchino, ha preso a cantare in arabo: e, alle due del mattino, arabi ed ebrei erano ancora seduti insieme, e insieme cantavano.
Abd el Aziz aveva anche un’altra freccia all’ arco dell’intesa tra musulmani ed ebrei: “Da decenni siamo qui a litigare per stabilire chi ha ucciso il nonno di chi: vogliamo che i nostri nipoti continuino a litigare sull’argomento? E se volessimo che I nostri nipoti cambiassero la solfa?!”
Per questa sua idea che è meglio cambiare il canto della vendetta in canto di pace si era unito, dodici anni fa, al gruppo “Derekh Avraham” (“La via di Abramo”), in cui ebrei e musulmani studiano e pregano insieme per promuovere un incontro tra israeliani e palestinesi, secondo l’antico insegnamento sufico, che e’ stato di Rumi, ma, anche, di Rabbi Avraham Ben ha-Rambam, figlio del grande Maimonide.
Aziz aveva il dono di far inarcare le sopracciglia persino ai Gerosolimitani, che sulle bizzarrie della fede ne hanno da dire; eppure, quando lui saliva sull’aereo sorridendo, convinto che dal Cielo gli avrebbero indicato il motivo di quell’improvvisa partenza, molti scuotevano la testa perplessi. “Non so perche’ vado”, rispondeva lui, serafico : aveva ricevuto un biglietto e partiva. Viveva, insomma, alla giornata, lavorando per guadagnare quel che basta per l’oggi e fidando nel Cielo per il domani.
Certo non gli mancavano mogli, figli e, cosa dispendiosa in Medio Oriente, svariate figlie da mantenere e da far sposare, ma, pur nell’estrema modestia di una vita del tutto povera di mezzi materiali, un sorriso gioioso si mostrava su tutte le labbra di casa Al Bukhari, che era aperta, senza eccezione e senza orario, a chi bussava alle sue porte.
Il pater familias conosceva la ricetta di tale serenita’:”Se si crede che Dio c’e’, bisogna lasciargli posto, non si deve rubargli il mestiere”.
A 61 anni, Aziz si sentiva un uomo vecchio: indicava le lastre di pietra di casa sua:”Presto sarò là sotto”, diceva con lo stesso tono amabile con cui offriva il tè alla menta, aggiungendo :”Sono I giovani che devono continuare!”. Non ignorava, certo, che il suo “giovane”, il fido “discepolo”sufi Ibrahim, avrebbe potuto avere l’età di suo padre.
Il mese scorso, doveva partire per un viaggio nella sua ben nota e amata Turchia, per andare con Rav Fruman da Erdogan, ad Ankara:”Non parto per quel Paese”, aveva annunciato, laconico, col solito sorriso un po’ scanzonato dell’uomo che non si prende mai troppo sul serio e lascia perdere le “pose”. Poche ore dopo, era già sotto quelle pietre di casa.
Marina Arbib