Noi e Israele, differenze e legami

Alcuni giorni fa rav Riccardo Di Segni ha proposto su queste colonne una riflessione sul rapporto tra l’identità ebraica e lo stato di Israele alla luce dei recenti avvenimenti mediorientali. In particolare egli ha evidenziato tre aspetti: 1) le manifestazioni dei giorni scorsi sono da ritenere fondamentalmente di matrice antisemita; 2) non sbagliano i manifestanti a identificare lo stato di Israele con gli ebrei della diaspora e con i luoghi che essi frequentano; 3) spesso questo collegamento assume una dimensione esclusiva anche per gli ebrei, che si recano in sinagoga per difendere Israele e non per pregare.
Mi sembrano tre spunti assai interessanti. Innanzitutto, penso anch’io che non sia sbagliato associare lo stato di Israele agli ebrei della Diaspora. Non perché siano la stessa cosa, ma per un dato facilmente constatabile: gli ebrei sentono di avere un legame affettivo, culturale e identitario con lo stato d’Israele, sebbene in molti ritengano legittimo, e anzi doveroso, criticarne talvolta le scelte politiche. In virtù di questo nesso gli ebrei della Diaspora sono visti anche come “avamposti” israeliani in altri paesi. Sebbene però questa situazione sia probabilmente destinata a perpetuarsi, noi ebrei non possiamo rinunciare a sottolineare la differenza: con tutto il nostro amore per Israele noi siamo italiani, parte di questa società e del suo futuro. Sembra ovvio, ma alcune recenti proposte sembrano andare in senso contrario.
Ciò che però può essere ancora più significativo è l’atteggiamento che questo legame con Israele può produrre all’interno della comunità. In un momento di pericolo per lo stato d’Israele – un pericolo che purtroppo rischia di diventare cronico – questo sentimento può venire strumentalizzato: la minaccia a Israele viene trasposta in una minaccia per gli ebrei e così facendo si crea una comunità sempre più chiusa, più impaurita, spesso più egoista, quindi più controllabile. Personalmente ritengo che tutti noi dobbiamo essere preoccupati per il futuro dello stato d’Israele, fare tutto ciò che è in nostro potere – sul “come” ognuno farà valutazioni diverse – per sostenerlo, senza però rinunciare a un’identità formata da tanti altri fattori: essere ebrei, italiani, di una certa idea politica ecc. Non si può essere pro-israeliani e stop.
Ultima questione: tutti i manifestanti delle ultime settimane sono antisemiti. Questo è un punto estremamente delicato, perché fare di tutta l’erba un fascio sarebbe, oltre che ingiusto, anche potenzialmente pericoloso. In generale io credo che il perimetro entro cui dovremmo muoverci è il seguente: chi nega esplicitamente il diritto all’esistenza (espressione semanticamente assurda) dello stato d’Israele esprime la forma moderna di antisemitismo. Ma non sono sicuro che questa sia la maggioranza di quei cortei peraltro sparuti. Chi, invece, critica le scelte politiche dello stato d’Israele, anche nella forma più violenta e faziosa, non può per ciò stesso essere considerato antisemita (sebbene a volte vengono ingiustamente richiesti a Israele standard morali particolarmente elevati). E, ovviamente, come inaccettabile, vergognoso, indifendibile atto di aggressione va qualificato un gesto come quello di deviare un corteo pro-Palestina verso il Ghetto di Roma. Una provocazione insopportabile a cui occorre guardare con vigilanza e rigore.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas