Il termometro della libertà

In questi giorni di caldo soffocante, dobbiamo provare a immaginare la vita di 245 persone rinchiuse da una settimana nel carcere di Braq, in pieno deserto libico. Senza l’aria condizionata delle nostre case e dei nostri uffici, certo, ma anche senza acqua, senza cibo sufficiente, senza spazio, naturalmente senza libertà, senza contatti col mondo esterno, con un carico di vessazioni di ogni sorta, botte, torture e molestie.
Si tratta, come sapete, dei 245 profughi somali ed eritrei, deportati in quella struttura desolata dalle autorità libiche che li avevano arrestati nel tentativo di raggiungere clandestinamente l’Europa. Esseri umani spinti dalla fame, certamente, ma anche da un regime terribilmente autoritario e liberticida come quello dell’ex-colonia italiana. A queste persone è stato consegnato un questionario, ufficialmente necessario per essere inseriti nella lista di prigionieri destinati a lavori socialmente utili. Temendo che invece si trattasse dei formulari per il rimpatrio forzato – ed è difficile non comprendere la diffidenza verso la feroce dittatura di Gheddafi – i profughi si sono rifiutati di compilarli, preoccupati dalle ritorsioni nei confronti dei loro familiari rimasti a casa.
Questa versione ufficiale è stata evidentemente ritenuta credibile dal ministro Elio Vito, che, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha ritenuto di affermare che la tragedia dei 245 profughi fosse originata da un “equivoco”, quello appunto dell’errata interpretazione del modulo. Il che riporta un’incredibile emergenza umanitaria a una piccineria di carattere burocratico-amministrativo, sanabile con una corretta informazione ai detenuti.
Secondo la Costituzione italiana hanno diritto ad essere accolti sul suolo della Repubblica tutti coloro le cui libertà democratiche non sono garantite nel paese di provenienza, secondo le modalità espresse dalla legge. Questa banale affermazione di diritto e di civiltà viene ormai sistematicamente violata dalla pratica ormai cronica dei respingimenti in mare, che impediscono un’identificazione adeguata dei clandestini volta ad accertare se vi siano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato. I rifugiati mancati vengono invece ricondotti in Libia, un paese – considerato un importante alleato dai politici italiani di destra e di sinistra – che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e dove l’Alto commissariato delle Nazioni Unite non può operare, nel quale sono detenuti in condizioni terrificanti.
La vicenda di questi 245 essere umani è una spia della civiltà giuridica e morale del nostro paese. Su un tema come questo – anche per rispetto delle migliaia di ebrei italiani provenienti dalla Libia – come ebrei italiani non possiamo tacere.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas