Il rifiuto palestinese
Alle ripetute, quasi quotidiane offerte e petizioni, rivolte dal governo israeliano all’Autorità Nazionale Palestinese, affinché si riprendano al più presto, senza alcuna precondizione, negoziati diretti di pace, Abu Mazen ha risposto che essi “non sono per il momento all’ordine del giorno”. Non stiamo qui a ripercorrere il secolare problema della natura del conflitto mediorientale, delle diverse responsabilità delle parti nella sua genesi e perpetuazione, delle eventuali, realistiche o remote possibilità di soluzione, ma limitiamoci a interpretare il significato di tale rifiuto.
Da anni si assiste allo spettacolo ridicolo di due autorità politiche, insediate a pochi chilometri l’una dall’altra, le quali, per parlarsi, sono costrette a fare la spola con capitali lontanissime, in complicate ed estenuanti triangolazioni. La cosa apparirebbe, evidentemente, del tutto priva di senso, ma soltanto ove si dia per presupposto che entrambe le parti – quantunque divise sugli specifici contenuti di un ipotetico accordo, nei suoi vari aspetti – siano almeno accomunate dal desiderio di pervenire comunque, in qualche modo, a una forma di intesa. Ma che tale desiderio comune esista è tutto da dimostrare, e molti segnali sembrerebbero indicare l’esatto contrario. Alcune immagini del recente passato, in particolare, si impongono, nel complesso e ponderoso contenzioso arabo-israeliano, per la loro estrema chiarezza e semplicità comunicativa. Tutti ricordano, per esempio, il ritorno in patria, rispettivamente, di Yasser Arafat e di Ehud Barak, dopo che, il 25 luglio 2000, si registrò il fallimento, a Camp David, delle lunghe trattative svolte, sotto l’egida del Presidente americano Clinton, per pervenire a un accordo definitivo di pace. Tutto il mondo poté assistere alle immagini del premier israeliano che scendeva la scala dell’aereo a capo chino, per poi scusarsi contrito, di fronte alla sua nazione, per il proprio insuccesso. E tutto il mondo, nelle stesse ore, poté assistere alla scena di un Arafat trionfante, che alzava le dita al cielo nel gesto di vittoria, innanzi a un’immensa folla esultante. Un’incontenibile gioia, esibita in mondovisione, per avere fallito, per non avere raggiunto l’accordo, alla cui realizzazione si era lavorato – meglio, si aveva fatto finta di lavorare – per lunghi anni, col coinvolgimento di migliaia di persone.
Quanto all’odierno rifiuto dell’attuale dirigenza palestinese, si era immaginato che i palestinesi avrebbero avuto convenienza a intavolare trattative dirette in questo momento, per approfittare dell’attuale momento di difficoltà e debolezza del governo israeliano. Ma forse, mentre viene mantenuta alta, nelle piazze islamiche, la tensione antisraeliana, si è preferito non concedere all’avversario il piccolo beneficio d’immagine di una stretta di mano. Ma tant’è. Chiediamoci solo, per un attimo, quali sarebbero i commenti internazioni se fosse Israele a rifiutare di sedersi a un tavolo negoziale. Ma si tratta di una domanda, evidentemente, molto ingenua.
Francesco Lucrezi, storico