Responsabilità
“Ha detto Rabbì Jochanan: ‘La pazienza (letteralmente l’umiltà) di Zecharià ben Avkulas ha fatto distruggere la nostra casa (il Santuario di Jerushalaim) e bruciare l’hechal e ci ha fatto andare in esilio dalla nostra terra”. Espressioni molto dure della Ghemarà (Ghittin 56a). Il sottofondo del brano ci è dato dal famoso episodio di Kamza e Bar Kamza: un padre benestante aveva voluto invitare a un banchetto nuziale un certo Kamza, ma il messo invitò invece un certo Bar Kamza, acerrimo nemico del padre; una volta accortosi dell’errore quest’ultimo intimò a Bar Kamza di lasciare immediatamente il banchetto e a nulla valsero le sue preghiere e la sua disposizione a cercare di riparare la situazione di comune accordo. Fra il silenzio dei saggi presenti (vi è chi sostiene che fra loro vi era lo stesso Zecharià ben Avkulas, che avrebbe potuto dire una parola buona… – Echà rabbà) Bar Kamza fu cacciato in malo modo; furente egli si rivolge all’imperatore romano facendogli presente che gli ebrei gli si erano ribellati. Per provare la cosa l’imperatore decise di inviare al Santuario un bell’animale come sacrificio, si sarebbe potuto così rendere conto se gli ebrei lo avessero accettato o meno; strada facendo Bar Kamza decise di fare un taglietto sopra l’occhio dell’animale, rendendolo inadatto per il sacrificio, così secondo le regole ebraiche, ma non secondo i Romani, per i quali quel difetto era di poco conto; ciò significava che era da escludere la possibilità di spiegare all’imperatore il motivo del rifiuto di accettare l’animale. I saggi si trovarono così di fronte a due possibilità: o accettare il sacrificio nonostante il difetto, per riguardo all’imperatore, oppure fare uccidere Bar Kamza per impedirgli di tornare dall’imperatore a denunciare gli ebrei. Rabbì Zecharià ben Avkulas non volle però prendere una decisione, per far evitare che si potesse pensare che si può offrire un sacrificio nonostante il difetto, oppure che si potesse pensare che la punizione per aver reso difettoso un animale per il sacrificio fosse la pena capitale. In tal modo Rabbì Zecharià non aveva agito secondo l’insegnamento dei Proverbi (28:14): “Beato l’uomo che teme sempre” e Rashì spiega il verbo teme: “Si preoccupa di vedere qual’è la situazione, che non venga un inciampo se ci si comporta in un determinato modo”. Osserva il Chatam Sofer: “Quello che è richiesto a un saggio è di vedere, di comprendere la situazione attuale (hanolad) e non il futuro, di ragionare con la propria intelligenza e Rabbì Moshé Chaim Luzzatto ci invita a guardare molto bene la situazione e a non fermarci su quello che ci potrebbe apparire a prima vista un atteggiamento di chassidut ( Mesillat Jesharim, cap. 20).
Non credere, o uomo, non credere, o saggio, di poterti liberare dalla tua responsabilità astenendoti dall’agire; talvolta il non voler agire, l’essere troppo paziente verso persone tipo Bar Kamza, comporta una responsabilità enorme, ben più grande di quella che avrebbe comportato la decisione, per esempio, di far sacrificare l’animale dell’imperatore, nonostante il difetto. “Sion sarà redenta con il diritto e i suoi abitanti con la zedakà” (Isaia 1:27).
Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università ebraica di Gerusalemme