La vitalità della Torà

“Al di là del Giordano nel paese di Moav, Moshé iniziò a spiegare questa Torà”. (Deut. 1:5) Rashì commenta: “iniziò a spiegare questa Torà = glie l’ha spiegata in settanta lingue”.
Il commento di Rashì appare un po’ strano. Il popolo aveva bisogno di settanta lingue, non era più comprensibile per lui il testo ebraico stesso? In realtà le parole di Rashì vengono a darci un insegnamento profondo: le settanta lingue rappresentano i settanta popoli del mondo, le settanta culture; quello che Mosè voleva farci comprendere è che la Torà può dare il suo insegnamento nei confronti di ogni cultura. Durante la storia abbiamo avuto svariate culture e l’ebraismo si è cimentato con ognuna di esse. Spiegare la Torà in settanta lingue, vuol dire dare una risposta adatta a ogni cultura. Alcune culture, come quella occidentale, sostengono che all’uomo deve essere lasciata la più ampia possibilità di agire, conservando i diritti del singolo; l’ebraismo risponde che vi è un Essere (il Santo e Benedetto) che richiede all’uomo un certo atteggiamento, il compimento di determinate azioni; un’altra cultura, quella comunista, riconosce che l’uomo non è libero di fare quello che vuole, ma mentre il comunismo ritiene che il potere risieda nel partito o nel leader, per l’ebraismo è in D-o. Svariate sono state le culture che sono sorte nel corso dei secoli, e a tutte la Torà ha dato la sua risposta.
Il rav Izchak Meir Alter di Gur (1799-1866), autore del Chidushé Harim, era solito spiegare il versetto binu shnot dor-vador (comprendete gli anni di varie generazioni, Deut. 32:7) nel senso che ogni generazione deve spiegare la Torà come se si rivolgesse a lei e deve quindi trovare i fondamenti importanti e necessari per cimentarsi con la problematica di quella determinata generazione.
Il libro di Devarim si apre con una lunga prefazione: “Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele nel territorio al di là del Giordano nel deserto, nella pianura davanti a Suf fra Paran e Tofel a Lavan, Chazeroth e Di Zahav” (1:1); Rashì spiega che ogni posto fa riferimento a un determinato peccato compiuto lì, ma Rashbam ci dà il senso semplice del versetto: la Torà vuole indicarci il posto esatto ove Mosè si trovava quando ha pronunciato quelle parole. Dopo di che viene data una descrizione esatta del tempo in cui sono state pronunciate le parole: “Il primo giorno dell’undicesimo mese del quarantesimo anno dall’uscita dall’Egitto” (1:3) e infine viene descritto il periodo esatto in cui sono state pronunciate: “Dopo aver colpito Sichon re dell’Emoreo che risiedeva in Cheshbon e aver batEdrè’i Og re di Bascian che risiedeva in Ashtarot” (1:4).
Si pone allora il problema del perché mai doveva la Torà stare ad indicare il luogo, il tempo, il periodo esatti in cui sono state dette queste parole? La risposta è che è stato fatto per insegnarci quanto abbiamo sottolineato: le parole di Mosè non erano staccate dal luogo, dal tempo e dal periodo in cui sono state pronunciate. Dobbiamo adattare i messaggi della Torà a ogni generazione, come ha fatto lo stesso Mosè per assicurarne la loro continua vitalità.
[Tratto e adattato da una conversazione del Rav Yehudà Amital z.l.]

Alfredo Mordechai Rabello, Università ebraica di Gerusalemme