La Shoà del 9 di Av e l’opera risanatrice dei tannaìm
La distruzione del Tempio nel 70 fu l’evento che segnò il periodo in cui andava prendendo forma la Mishnà, il codice di leggi e sentenze a cui contribuirono generazioni di maestri, i tannaìm. Quale fu la reazione a quell’evento? E qual è dunque la concezione della storia che attraversa la Mishnà?
Al contrario di quel che ci si potrebbe attendere, non c’è nessun capitolo della Mishnà interamente dedicato alla distruzione del Tempio. Ma occorre precisare che i maestri non si soffermano a narrare gli eventi. La loro prospettiva può apparire – e forse è – eccentrica. Anche gli avvenimenti più drammatici assumono rilievo per le ricadute legali che possono avere. Una guerra (non ben specificata, tanto l’avvenimento risulta trascurabile) ha inizio per via del voto di una regina compiuto quando il figlio partì per «la guerra» (Naz. 4,1). L’irruzione dei gentili a Gerusalemme nel 70 pone la domanda sulle conseguenze di uno stupro eventuale della moglie di un sacerdote (Ket. 2, 9).
Come reagirono allora i maestri alla distruzione del Tempio? In due modi che, a ben guardare, sono fra loro connessi. Anzitutto si misero all’opera per rivedere le leggi dei riti e del culto. Gli esempi sono tanti. Se prima il lulav veniva alzato a Gerusalemme per sette giorni, e nelle provincie per un solo giorno, dopo la distruzione del Tempio Rabban Yochanan ben Zakkai decise che si alzasse per sette giorni il lulav anche nelle provincie in memoria del Tempio (Suk. 3, 12).
Ma i maestri reagirono a quel 9 di Av anche in un altro modo che a un primo sguardo può sembrare riduttivo. Cercarono di introdurre l’evento nel loro codice, lo inserirono nella loro raccolta perché mostrasse le sue affinità con altri disastri. Elaborarono il lutto per la distruzione del Tempio e per la perdita del sistema principale di culto in modo pacato e misurato. Non si crogiolarono in una superflua autocommiserazione. Strapparono quell’evento alla sua unicità che lo avrebbe posto pericolosamente al di fuori della storia; ne rimarcarono la contingenza per sollecitare una risposta ferma da parte del popolo ebraico. A quanti altri simili disastri sarebbe stato esposto nella sua storia?
La memoria del 9 di Av lo avrebbe preparato ad affrontare gli eventi futuri per oltrepassarli, par passarvi attraverso e andare oltre, per sopravvivere, nella storia e oltre la storia. Fu questa l’opera risanatrice dei tannaim – una lezione anche per oggi.
Perché spinge a riflettere sui pericoli di considerare la Shoà un evento «unico», che poi vuol dire fuori dalla storia, indicibile, incomprensibile, avvolto da un alone mistico di silenzio e di nulla (una bella scusa per i negazionisti). Chi parla di evento unico lo fa per mancanza di riflessione, per una svista o per semplice ignoranza. Magari fraintendendo filosofi profondi come Emil Fackenheim che, onde evitare gli equivoci a cui può dar luogo la parola inglese «unique», ha chiamato la Shoà un evento «unprecedented» per essere spinti a cercare precedenti nel passato e a vigilare perché non divenga precedente nel futuro.
Donatella Di Cesare, filosofa