Tish’à beav…

Secondo una tradizione che ha origine nel Talmud Yerushalmi, alla preghiera fondamentale (‘amidà) del 9 di Av si aggiunge una formula speciale che descrive la distruzione di Gerusalemme e ne invoca la ricostruzione in termini drammatici (“perché con il fuoco l’hai distrutta e con il fuoco la ricostruirai…”). La natura sostanzialmente consolatoria della formula, che inizia con la parola nachem, “consola”, ha creato una divisione nei riti; i Sefarditi la recitano fin dalla sera, gli Ashkenaziti solo nel pomeriggio successivo, nel momento in cui i rigori del lutto si attenuano e si può cominciare a parlare di consolazione. Tra i due opposti, la soluzione scelta dal rito Italiano è tanto semplice quanto geniale; la nun iniziale di nachem viene sostituita da una resh, per cui “consola” diventa, la sera e la mattina, rachem, “abbi misericordia”. Un brillante compromesso che testimonia la “gloriosa” (in nome della Tiferet) capacità di mediazione della tradizione italiana, che già ci veniva riconosciuta più di due secoli fa da illustri mistici.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma