Cara compagna di banco
Cara compagna di banco, l’altro giorno avevo voglia di piangere, e tu sai perché. Ho cercato di distrarmi con il lavoro, ma non sempre funziona. E in ogni caso volevo parlare di te per come ti ho conosciuta, lasciando ad altri, più competenti e titolati, il compito di rendere omaggio alla tua figura straordinaria di professionista, di studiosa, di ambasciatrice nel mondo della cultura e della storia degli ebrei italiani. Parlare per quella quotidianità di ragazzini che siamo stati, vicende eguali a tante altre che a noi sono parse e a me continuano a sembrare tanto speciali. Così ho finito per aprire quel cassetto. Sul fondo ci sono vecchie carte e vecchie foto e fra queste le foto della nostra classe. Quarta ginnasio, liceo Visconti. Eccoci nel cortile cui allora non si badava, mentre ora capisco quanto sia uno dei tesori della nostra città. L’inverno di 38 anni fa non fu mite, ma per noi cambiava poco, dato che anche nelle aule mancava un vero e proprio riscaldamento. Nell’immagine ci siamo tutti, tu da un capo e io dall’altro, la prof Moretti in mezzo. Che ci incantava tutti, quando fra una declinazione e l’altra ci raccontava che quello screanzato di suo figlio, neanche tanto più grande di noi, sognando di fare il regista, aveva buttato la casa all’aria per realizzare un filmino in superotto e le epigrafi greche collezionate dal suo autorevole papà erano finite per sbaglio in un cestino. Non era il freddo, era la vita a darci la pena e lo slancio che sembra difficile trovare nelle nuove generazioni. Dietro quei volti così infantili c’erano le prime settimane di un percorso che ci avrebbe fatto diventare grandi in anni difficili. Il Sessantotto era ieri e la prima carica della polizia, che inspiegabilmente entrava a scuola con i manganelli per motivi che non riuscivamo a capire (chissà che diavolo avevano combinato i più grandi), giornate tese, minacciose e divise fra il dovere di sentirsi impegnati e il diritto di perdersi in scemenze, le assemblee non autorizzate e le passeggiate a Villa Borghese. Ogni mattina, sulla piazza del Collegio romano, che era il nostro salotto, volantini, slogan, striscioni, giornaletti ciclostilati nati come funghi. Sembravamo in fondo pesci fuor d’acqua in un tempo in cui tutte le idee dovevano dimostrarsi altisonanti per reggere il confronto. Troppo sensibili, troppo ben educati, troppo fragili. Al nostro primo volantinaggio eravamo soli tu e io, a pochi passi da piazza di Spagna, di fronte alle vetrine della pellicceria Fendi. Il messaggio era un grido di guerra contro le signore impellicciate. Una commessa venne fuori con aria burbera, eravamo impauriti. Fu la prima, innocente contestazione. Altre ne seguirono, sempre cercando, ognuno a modo proprio, di tenersi allo scarto dai compagni più bellicosi. Ne abbiamo viste di tutti i colori. I 32 morti che i terroristi di Settembre nero lasciarono sulla pista dell’aeroporto di Fiumicino (quando sei uscita dall’assemblea degli studenti trattenendo le lacrime, non voglio mai dimenticarlo, mentre qualcuno fra gli applausi cercava di giustificare l’orrore con le ragioni del popolo palestinese senza nemmeno sapere dove fosse il Medio Oriente). La morte di Giorgiana Masi sul ponte Garibaldi, le battaglie per il divorzio, l’obiezione di coscienza e gli altri diritti civili, gli sforzi spesso inutili di un paese straziato e arretrato di essere un paese civile. La nostra prima gioventù, cominciata nell’irrisolto contrasto fra paura, violenze e rivendicazione di diritti e di identità, si sarebbe conclusa pochi anni dopo, nel 1982, con negli occhi le immagini di quella manifestazione sindacale che sperando di intimidire gli ebrei di Roma buttò una bara di fronte alla sinagoga e l’attentato che dopo poche settimane che costò la vita a un bambino di due anni. In mezzo siamo riusciti a infilarci tante speranze. E qualche sorriso. Siamo riusciti a farci portare in gruppo sui giornali e in tribunale (1974) per aver organizzato fra gli studenti uno scandaloso, per il metro di giudizio di allora, questionario sulla vita sessuale degli studenti. Ci siamo procurati il primo ciclostile a manovella per stampare l’ennesimo giornalino scolastico. E siamo andati in gita a Venezia (che allora sembrava ancora un grande viaggio, una grande avventura). Ma soprattutto, non si sa come, in mezzo a tanta confusione, siamo riusciti a studiare (per te non era un problema, eri sempre comunque la prima della classe). Poi la vita ha preso il suo corso: lo studio, i viaggi, i matrimoni, i figli. Perdersi di vista e ritrovarsi. In un modo o nell’altro, con i nostri passi o con i ricordi, siamo tornati mille volte sulla piazza del Collegio romano, abbiamo guardato i tre scalini consumati dove i ragazzi continuano a darsi appuntamento fuori da scuola e abbiamo sorriso ripensando alla goliardia e alla fierezza di alcuni nostri compagni di scuola, destinati a divenire illustri rabbini italiani, che scherzando mi dicevano: “Mettiti a studiare, così facciamo un Beth Din, un tribunale rabbinico composto di tre giudici, di soli viscontini”. Abbiamo finto di essere al riparo dalla nostalgia. Siamo tornati a scuola per la serata dell’Associazione ex alunni e avevi appena ricevuto il prestigioso premio Mattonella, quando si consegna una piastrella dell’antichissima pavimentazione dell’Aula magna a un ex alunno di successo. Ho ascoltato la tua appassionata rievocazione di quegli anni di scuola. Tuo figlio grande, che mi stava a fianco, mi ha chiesto sottovoce se nel raccontare quei cinque anni e quelle mille storie tu non esagerassi. E per tranquillizzarlo gli ho detto che forse un pochino sì, ma sapevo benissimo che era tutto vero. E che le storie apparentemente incoerenti e buffe di quegli anni in realtà sono state più dritte e importanti di quanto non sembrasse. Volevamo fare qualcosa di significativo in campo ebraico. Tu sicuramente ci sei riuscita, con la professionalità e la serietà che ti hanno resa ambasciatrice di Roma nel mondo. Hai aiutato schiere di italiani a comprendere le cose belle, innumerevoli ebrei a essere fieri delle proprie radici e della propria cultura. E hai aiutato me a capire che dietro i grandi capolavori, dietro gli elementi preziosi, c’è la nostra capacità di impegnarci, di lavorare con umiltà e devozione e di apprezzare anche le piccole soddisfazioni della vita quotidiana. E fra tante parole che ci siamo detti, c’è una cosa che non ti ho mai confessato. Quando una volta stavamo seduti fianco a fianco in quel banco senza voglia alcuna di ascoltare la professoressa, hai avuto un momento di fastidio per qualche dieta che ti costringevi a seguire. Ti avevo chiesto quale privazione fosse per te la più insopportabile. E tu, sgranando gli occhi, mi avevi risposto sicura: “Anche semplicemente pane e burro”. Sono passati tanti anni, ma da allora immancabilmente tutte le volte che spalmo una fetta di pane ripenso con affetto a quel momento di sincerità e di amore per la vita. E alla tua capacità di capire le grandi opere cogliendo intensamente e con gratitudine ogni frammento delle piccole cose chi ci vengono incontro.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche, agosto 2010