Davar Acher – Il salto della quaglia
Hack, Morandini, Bocca, Antonioni – nelle polemiche recenti. E poi Vittorini, Ingrao, Pavese, Dario Fo, Trombadori, Guttuso, Pratolini, Scalfari e tanti altri citati abbondantemente in passato. Continua la discussione sui “grandi intellettuali” italiani passati nel dopoguerra dalla militanza fascista a un’identità di sinistra, spesso francamente comunista. L’ultimo caso è quello dell’astrofisica Margherita Hack, che su Pagine Ebraiche di agosto confessa di non avere avuto il coraggio di salutare negli anni delle leggi razziste l’illustre scienziata ebrea che la iniziò agli studi e sul Corriere della Sera ammette il suo passato fascista e la sua passiva obbedienza rispetto ai provvedimenti razzisti del regime, giustificandosi con la volontà di partecipare a un importante campionato: potenza dello sport!
Il salto della quaglia da destra a sinistra (qualche volta anche viceversa), saltando il centro noioso e borghese, ha coinvolto molti giornalisti, scrittori, artisti, docenti universitari. Non ci interessa qui naturalmente analizzare le storie individuali, assolvere e condannare; per ragioni puramente cronologiche i casi più gravi e significativi del “lungo viaggio attraverso il fascismo”, come lo chiamò Ruggero Zangrandi in un libro famoso, sono da tempo finiti nei luoghi della pietà dovuta ai defunti. Per chi vive oggi, sessantacinque anni dopo, è certamente valida l’attenuante dei “peccati di gioventù” o delle “ragazzate”. E però si impone una riflessione più generale rispetto al salto della quaglia degli ex fascisti oggi comunisti, semplicemente perché l’attrazione irresistibile delle dittature sugli intellettuali non è affatto finita col fascismo. Ragazzi e meno ragazzi con pretese intellettuali si innamorarono volta volta di Stalin e di Mao Tse Tung (lo confesso, anch’io nei miei vent’anni ho agitato il “libretto rosso”…), di Castro e di Peron, di Ho Chi Min e del Che Guevara, di Ben Bella e di Arafat, oggi sostengono Ahamadinedjad, Chavez, Hamas. Quasi tutti personaggi che ai loro molti difetti generali assommano anche i tratti dell’antisemitismo, o almeno dell’odio per Israele e il sionismo.
Perché questo sex appeal del dittatore? Perché l’impegno intellettuale per i regimi autoritari è stato immensamente più popolare di quello per la democrazia? Ignoriamo le vicende personali, non indaghiamo nelle motivazioni singole. Lasciamo perdere anche il trasformismo nazionale, la piccola furbizia che fa parte dell’identità italiana per cui artisti e intellettuali cercano sempre il protettore di turno. Il problema è più generale. Una ragione materiale è evidente: i totalitarismi mirano a mobilitare tutta la società e usano volentieri gli intellettuali come strumenti per questo obiettivo: hanno dunque una “politica culturale” che li coinvolge emotivamente e li avvantaggia sul piano economico (il fascismo distribuiva soldi a moltissimi intellettuali e giornalisti, anche a quelli che non ne avevano bisogno come Mascagni, Pirandello, Marconi). Nei paesi comunisti gli scrittori, gli artisti e i giornalisti (non dissidenti, è chiaro) erano organizzati in circoli e sindacati che li favorivano parecchio. Per diventare un intellettuale di successo, oggi come ieri, ci vuole un po’ di furbizia, un senso missionario della propria promozione, che è soddisfatto molto di più dalle politiche culturali dei partiti totalitari che dal mercato liberale. Diventare un'”operatore ideologico”, una “cinghia di trasmissione”, un “megafono” per le idee giuste, naturalmente, è una tentazione (o una giustificazione della propria identità) cui pochi intellettuali si sono sottratti nel Novecento.
Ma c’è di più. L’artista, lo scrittore, il giornalista, l’universitario, insomma l’intellettuale, è una figura contemporanea di chierico sradicato in una società che fa fatica a riconoscere la pura e semplice “missione del dotto”. Appartenere a un partito che vuole rifondare il mondo su valori imposti e progettati, dare senso alla propria vita non coi piccoli risultati che si possono ottenere in astrofisica o nella critica cinematografica, in letteratura o nell’editoria, ma con la “liberazione dell’uomo”, la “rivoluzione”, l'”utopia” permette di superare una crisi di identità profonda, una sfiducia in sé e nella banale società circostante. Nel comunismo prima sovietico e poi cinese, nel fascismo esoterico (naturalmente razzista), nel terzomondismo, nell’islamismo militante vi è un tratto esotistico che ha sempre colpito gli intellettuali: via dalla banalità quotidiana della democrazia, con i suoi negoziati umilianti, con la sua faticosa ricerca del consenso! Via verso la figura carismatica di un leader che ha sempre qualcosa di machista e di titanico, “eros e priapo”, come scrisse Gadda! Via verso l’utopia che essendo felicemente in nessun luogo non può essere sporca, via verso un futuro che non essendoci ancora non può essere sbagliato! Anche Israele poté piacere a qualcuno quando era l’utopia dei kibbutzim o la romantica arretratezza dei chassidim… ma da quando si è capito che era fatto di città moderne, di industrie hi-tec, di politica barocca, di scontri sanguinosi con dei vicini così esotici, così romantici e idealisti, con il vantaggio ulteriore di essere o di sembrare poveri, ha perso completamente il suo carattere utopico.
Per queste ragioni gli intellettuali che da giovani erano fascisti o poi sono diventati comunisti e rimasti estremisti anche oggi, come quelli che ho citato, e gli altri che per ragioni anagrafiche sono diventati comunisti subito e oggi sono “no global” o “pacifisti” o “ecologisti radicali”, molto probabilmente non possono essere rimproverati di aver cambiato bandiera, o di essere stati ingenui allora e furbi oggi o viceversa. Sono sempre gli stessi, un impasto di furbizia e di irrealistico innamoramento per il potere carismatico dei tiranni, di pietà e di narcisismo, di interesse personale e di disinteresse mal riposto, di orgoglio ed egotismo e di bisogno di servitù verso un “capo”. Quell’atteggiamento che già ottant’anni fa Julien Benda chiamava “trahisno des clercs”, il tradimento dei chierici.
Ugo Volli