“Nella distruzione dobbiamo vedere l’inizio della riparazione”
Il Talmud ci dice che Moshé Rabbenu ci ha insegnato non solo la Torà ma anche alcune regole della Tefillà: “L’uomo deve prima esprimere le lodi del Santo e Benedetto e poi pregare” (Berachot 32a), secondo come ha agito Moshé stesso in questa parashà: “Sign-re Idd-o, Tu hai cominciato a mostrare al Tuo servo la Tua grandezza e la Tua mano potente in modo tale che quale D-o in cielo o in terra potrebbe mai imitare le Tue opere e la Tua potenza” e poi nel verso successivo: “Lasciami di grazia passare il Giordano sì ch’io veda la buona terra” (Deut. 3:24-25 nella traduzione del rav Elio Toaff). La Torà e la Tefillà sono i due canali verso D-o, sono il legame fra l’uomo e D-o. L’uomo riconosce che da D-o viene l’insegnamento (la Torà) e con la preghiera, che sale dall’uomo verso D-o, l’uomo riconosce che tutto proviene da D-o Benedetto (Tefillà). La Tefillà ci invita a un momento di riflessione prima che possiamo esprimere le nostre richieste, come a dire cerca di vedere te stesso nel mondo in cui ti trovi, guarda l’opera del Sign-re prima di chiederGli cosa ti manca, insomma derech erez (che in questo caso si può tradurre anche con ‘buona educazione’ ) kadmà latorà; ma dobbiamo sapere bene, una volta iniziata la tefillà dobbiamo liberare la nostra mente da ogni altra cosa, sia pure dal limud torà (uleovdò bechol levavchem, Deut. 11:13, che si riferisce alla Tefillà – Sifré).
Nachamù, nachamù amì
“Consolate, consolate il mio popolo” (dalla Haftarà di Shabbat nachamù, Isaia 40:1) e subito dopo “parlate al cuore di Jerushalaim” (ivi, 40:2), non vi è una vera consolazione se non riguarda Erez Israel e il suo cuore, Jerushalaim. Isaia parla di una doppia consolazione: la prima verso l’esterno, con le genti del mondo che fanno fatica a riconoscerti un posto, che fanno fatica a riconoscerti la legittimità, fanno fatica perfino a riconoscerti il diritto alla vita (sì, a me non lo si può negare, ho vissuto anch’io direttamente quel periodo). Quanto abbiamo bisogno di questa consolazione, come ricordiamo con gratitudine la dichiarazione Balfur, noi che pure abbiamo scritta in lettere d’oro questa dichiarazione per bocca dei Profeti, in tutta la Bibbia…; ma non meno importante è la seconda consolazione, quella rivolta verso l’interno, a casa nostra. Quanto ne abbiamo bisogno con tutte le beghe che vi sono fra noi, dalla definizione di chi è ebreo, di chi vogliamo che venga a vivere con noi, di come possiamo convivere con culture così differenti, anche qui Isaia ci dice: “La vera consolazione è parlate al cuore di Jerushalaim”. C’è una consolazione per la golà e una consolazione per Erez Israel, c’è una consolazione per la generazione che ha visto il churban (distruzione del Santuario) e una consolazione per tutte le generazioni future: “Consolate, consolate il mio popolo – dirà il vostro D-o” (e il Jalcut Jeshaià spiega in questo modo l’uso del futuro, dirà). La lezione di Jeshaià è quella che ci darà Rabbì Akivà (TB, Makkot 24 b) quando sorride vedendo il Santuario distrutto. Rabbì Akivà ci ha insegnato che già nella distruzione dobbiamo vedere l’inizio della riparazione, l’inizio della redenzione. È senz’altro una lezione importante, ma assai difficile, assai difficile…
N.B. Sono lieto di dedicare queste divré Torà in onore del rav Elio Toaff, in occasione dei suoi 95 anni spesi per la consolazione del suo popolo, all’interno come all’esterno: grazie e chazak ubaruch, caro rav Toaff.
Alfredo Mordechai Rabello, Università ebraica di Gerusalemme