Regole di vita
A me pare che l’«affaire-aragosta» sia particolarmente interessante. Chiariamo i fatti: sembra ovvio che l’accusa mossa a Lev Chadash – aver mangiato aragosta durante il seder di Pesach – sia falsa. L’«Associazione per l’ebraismo progressivo» ha sporto denuncia al Bet Din di Milano per diffamazione, e se, come pare probabile, avrà ragione, destinerà i soldi del risarcimento in beneficenza.
Il lettore non ebreo avrà una certa difficoltà a comprendere la gravità dell’accusa. L’osservanza delle regole è centrale nell’ebraismo, e questo ci differenzia dai fedeli di altre confessioni. Da questo punto di vista l’«affaire-aragosta» ben sintetizza un elemento portante dell’ebraismo: D-o, così come il diavolo, si annida nei dettagli, ed è a quelli che noi dobbiamo prestare attenzione. Non esiste una mizvà marginale e una fondamentale, poiché l’ebraismo si sostanzia nella ritualità quotidiana. Basti pensare che lo shabbat – ovvero la regolarità – è insieme a Kippur la più importante delle festività (Shabbat shabaton), come a dire che non serve cercare picchi di santità assoluta, quanto piuttosto un livello costante e possibilmente crescente di moralità.
Ma è interessante anche la replica di Lev Chadash all’accusa infamante. «Mai ci saremmo sognati di fare una cosa del genere». Perché, verrebbe da chiedersi? Non sarebbe tutto sommato logico che chi si propone di reinterpretare le mizvoth possa immaginare di mangiare i frutti di mare? Il bello è proprio qui: in un meccanismo squisitamente ebraico, che sottopone la lettera della norma a ogni tipo di interpretazione, non può esistere una contrapposizione tra ebrei – anche organizzati – che si concretizzi in una dialettica bianco-nero. «Noi rispettiamo tutte le mizvoth e noi nessuna». Tra ebrei si discute sulla modalità di osservanza, si contratta, si approfondiscono gli aspetti fondamentali, si tentano soluzioni creative. Nessuno potrà mai ebraicamente sostenere, alla maniera del figlio rashà (malvagio) durante il Seder di Pesach: «Questo precetto non è importante, a me non interessa!».
Insomma, chi non considera semplicemente buffa la produzione di gamberi di merluzzo per avere frutti di mare kosher, ma che coglie in questo lo spirito creativo e originale dell’ebraismo, in cui anche il divieto va sezionato e interpretato, non sorriderà dell’«affaire-aragosta». Perché un ebraismo capace di discutere e di mediare, è un ebraismo che saprà restare unito.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas