Solidarietà apparente
Il popolo palestinese ha ricevuto dalla storia, negli ultimi decenni, la singolare condizione di destinatario di un apparente movimento di solidarietà straordinariamente vasto e radicato. Cortei e manifestazioni pro Palestina si sprecano, nei cinque continenti, la bandiera palestinese appare sventolata di continuo, anche in adunate convocate per tutt’altre ragioni, riprodotta sui muri di scuole, mense, collettivi, Università, documenti di solidarietà al popolo palestinese sono votati e approvati in assise di ogni formato, dalle Nazioni Unite al più sperduto Consiglio municipale, le sofferenze palestinesi sono continuamente evocate, con toni accorati, da esponenti politici e intellettuali di tutti i generi. Ed è un appoggio assolutamente trasversale, in nome del quale appaiono affiancati rappresentanti delle più diverse e opposte aree di pensiero, che mai potrebbero trovare, in nessun modo, un qualsiasi altro punto di possibile convergenza: estrema destra ed estrema sinistra, zelanti sacerdoti e atei anticlericali, trasgressivi antisistema e benpensanti perbenisti. Tutti uniti, tutti insieme, tutti amici della Palestina.
Solidarietà apparente, abbiamo detto, perché di aiuti concreti, in genere, c’è ben poco. Tutti, soprattutto, anche i bambini, sanno che, dietro tale imponente mole di finto amore, c’è qualcos’altro. E tutti sanno di che si tratta. Sarebbe pertanto offensivo, nei confronti dei palestinesi, ritenerli non consapevoli della natura decisamente falsa e pelosa di tale simpatia, puntuale dimostrazione del vecchio principio secondo cui “i nemici dei miei nemici sono miei amici”.
La domanda che si pone, però, è se i palestinesi, diretti destinatari di tale strombazzata solidarietà, ritengano di poter ricevere da essa un qualche, sia pur indiretto, beneficio sul piano delle loro aspirazioni ed esigenze. La domanda non riguarda quei palestinesi – che, purtroppo, non sono pochi – che praticano o appoggiano il terrorismo, giacché è evidente che costoro si sentono legittimati e incoraggiati dai vari movimenti pro Palestina, dal momento che questi ultimi non distinguono mai, ma proprio mai, tra palestinesi ‘semplici’ e terroristi; né coloro – anche in questo caso, numerosi – che paiono rassegnati a voler recitare, in eterno, la parte delle vittime, ai quali la grancassa della solidarietà mondiale dà certamente protagonismo e visibilità. Ma la domanda va rivolta a quella terza categoria di palestinesi – e vogliamo credere che siano la maggioranza – fatta da persone normali, che desidererebbero semplicemente vivere in pace e in dignità, uguali fra uguali, in un loro pacifico stato, in rapporti di buon vicinato con Israele. Si chiedono, costoro, se la pace in Medio Oriente, secondo l’abusata formula dei “due popoli in due stati”, sia, per lo sterminato esercito dei loro dichiarati ‘amici’ (o “nemici dei loro nemici”), un reale obiettivo da perseguire, o non piuttosto qualcosa da impedire a ogni costo, per non precipitare in una gigantesca crisi d’identità?
Attendiamo il giorno in cui un giovane palestinese strapperà la bandiera del suo Paese dalle mani di un partecipante a un corteo pro Palestina, dicendogli: “è la mia bandiera, lasciala”. Sarebbe un piccolo, grande passo sulla strada della pace.
Francesco Lucrezi, storico