Quella sosta ad Auschwitz

Più che un’opinione vorrei condividere un dubbio: è giusto far transitare ad Auschwitz i ciclisti in gara al Giro di Polonia? Finora mi pare che il consenso sia stato unanime tra commentatori e addetti ai lavori, e va dato atto a organizzatori e corridori di aver evitato sbavature o scivoloni.
L’intento era certamente positivo, così come è auspicabile che l’iniziativa possa favorire la consapevolezza della storia tra gli appassionati della corsa; tanto più in Polonia, un paese che ha ancora molte questioni aperte con il proprio passato, permeato di un feroce antisemitismo messo sbrigativamente in conto all’aggressore tedesco. D’altra parte le immagini erano un po’ impressionanti: la schizofrenia tra la tragedia immane di quei luoghi e il circo allegro del ciclismo (ammiraglie, fotografi, direttori sportivi, vallette, fidanzate, corridori, motociclisti al seguito) personalmente mi ha infastidito. Forse è un riflesso condizionato a cui non bisogna dare peso, anzi probabilmente occorre privilegiare il potenziale divulgativo.
Ma rimane il dubbio. La memoria dei lager e della Shoah non va sacralizzata – alcuni anni fa un rabbino mi confidò di non voler, come si fa abitualmente, suonare lo shofar ad Auschwitz – né monumentalizzata: essa va resa attuale soprattutto a beneficio delle nuove generazioni che meno conoscono la storia; occorrerebbe anzi cercare di collegare la tragedia della Shoah ai massacri e ai genocidi di oggi, invitando i giovani a uno slancio di responsabilità. Ma rimane il dubbio che non sia una gara ciclistica il modo migliore per condurre questa operazione. E che alla fine, nella percezione degli spettatori, anche il lager possa trasformarsi in un traguardo di fine tappa, smontato dagli addetti prima ancora che gli ultimi del gruppo siano giunti all’arrivo.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas