Gli antisemiti di Sua Maestà

Notevole impatto, sull’opinione pubblica mondiale, ha avuto la recente intervista rilasciata allo storico Benny Morris dal Presidente israeliano Shimon Peres, il quale, a proposito dei reiterati gesti di ostilità, di vario tipo, verso lo Stato di Israele provenienti da diversi ambenti – politici, civili, intellettuali – del Regno Unito, ha dichiarato di non potersene stupire, in ragione dell’antico, radicato antisemitismo d’Oltremanica. Forte della sua indiscussa autorità morale, il Presidente ha avuto il coraggio di dire la verità, quantunque scomoda e “politically uncorrect”? O è caduto in una pericolosa generalizzazione, sfiorando un increscioso incidente diplomatico?
Consigliamo, prima di dare una riposta, la lettura di due libri, in grado di dare luce sul controverso rapporto verso il mondo ebraico da parte dei sudditi di Sua Maestà. Il primo, Autodafé, di Emanuele Ottolenghi (Lindau, 2007) dà un quadro preciso e sconfortante – ricostruito per esperienza diretta – dell’estensione del pregiudizio anti-israeliano negli ambienti culturali e accademici del Regno, che vede moltissimi docenti e intellettuali, di diversa formazione e collocazione politica, farsi promotori di massicce iniziative di denuncia, boicottaggio, discriminazione ecc. che, quasi sempre, coinvolgono l’intera società israeliana, nel suo insieme, la quale appare integralmente criminalizzata, nella sua interezza, senza alcun distinguo e alcuna eccezione.
L’altro libro, uscito in Italia col titolo Il muro invisibile (Piemme, 2007), è un testo di memorie, scritto, tra il 2003 e il 2006, come opera prima, da Harry Bernstein (all’inizio della scrittura, novantatreenne), la cui famiglia, di ebrei originari della Polonia, visse nel Lancashire nei primi decenni del secolo, per poi emigrare negli Stati Uniti alla vigilia della grande depressione. In pagine piene di poesia, nostalgia e dolore, l’autore rievoca – senza nulla aggiungere o inventare – i lontani anni della sua infanzia, nei quali la lotta contro fame e miseria doveva sommarsi alla quotidiana autodifesa contro le innumerevoli angherie e vessazioni da parte della popolazione cristiana. Tra i vari episodi narrati, c’è quello del fratello maggiore, Joe, che, bravo nello scrivere, mandava continue richieste di collaborazione a giornali vari, senza mai ricevere risposta. Un giorno, una lettera arrivò, con l’offerta di un colloquio nella lontana città di Manchester. Pieno di speranza, il ragazzo partì, col suo abito buono, accompagnato dagli auguri festosi di tutta la famiglia. Giunto all’appuntamento, dopo un lungo viaggio e un’attesa di molte ore, fu finalmente ricevuto, per sentirsi dire dal Direttore che era assurdo e offensivo che un ebreo pretendesse di fare il giornalista, e che era ora che la smettesse di inviare quelle lettere ridicole. Uscito dal giornale, Joe fu aggredito e pestato a sangue da alcuni teppisti, per vendicare la morte di Gesù. E, una volta tornato a casa, il suo racconto fece finalmente maturare nella madre la determinazione di lasciare il Paese, per non tornarci mai più.
Ai tempi dell’infanzia di Bernstein, naturalmente, lo Stato di Israele non esisteva, e l’accusa del deicidio rappresentava il principale pretesto per i gesti antisemiti. Un’accusa, ovviamente, che gli intellettuali britannici del giorno d’oggi, interessati esclusivamente a sionismo e Palestina, non si sognerebbe mai di sollevare. Eppure, ciascuno dei due libri aiuta a comprendere l’altro, nella misura in cui entrambi parlano, in pratica, della stessa cosa.
Continueremo sempre, nonostante tutto, ad amare l’Inghilterra, culla della democrazia e del diritto. Ma, proprio in ragione di tale amore, non assistiamo con indifferenza alla recrudescenza di una sua antica malattia, dalla quale dovrà guarire.

Francesco Lucrezi, storico